Il Domenicale

Sorridere e poi meditare sulla radice degli ortaggi

Giorni grami anche se baciati da una primavera che sta diffondendo i suoi umori buoni con insolita fretta. Quindi, c’è poco da stare allegri e ancor meno per sorridere. Però ieri una ragazzina, vedendomi impacciato nel reggere giornali e libri con una mano mentre l’altra tentava di trattenere la borsa del pane appena acquistato, s’è avvicinata e ridendo e sorridendo, prima mi ha aiutato a salvare carta e cartacei, poi, sorridendomi come solo i bimbi sanno fare, mi ha chiesto se e come tutto quel che mi stava intorno era necessario e, soprattutto, se giornali e libri li avrei poi onorati di lettura, “perché – aggiunse limpida e sincera – a me nessuno regala libri e giornali da leggere e magari se capitasse non saprei nemmeno da dove incominciare”. Allora, tanto per aiutarla a incominciare, le ho regalato un libretto, appena pensato e tolto dal banchetto del venditore appostato al mercato (dove finiscono sempre i libri e i libretti che non godono fama e pubblicità pur mantenendosi deliziosi), che a suo modo spiegava almeno cento modi buoni per sorridere alla vita e così rendere migliori i giorni.In cambio lei mi ha regalato il suo nome. “Mi chiamo Letizia – mi ha detto –, ma qualche volta mi chiamano soltanto Tizia…”. Avrei voluto spiegarle che chiamarsi Tizia, significava andare d’amore e d’accordo con Caia e anche con Sempronia, ma era già corsa incontro al suo cagnolino, felice e festosa, semplicemente perché quel batufolo tutto pelo, scodinzolamenti e bau-bau non solo era suo amico, ma anche perché, ne sono sicuro, rappresentava il suo piccolo e dignitoso rifugio a cui confidare e in cui confinare segreti e sogni.

Il mondo di Letizia era altro. Il mio era quello raffigurato sulle prime pagine dei quotidiani: giornata in memoria delle vittime del Covid; guerra e guerre senza fine; i bambini rubati come fossero bottino di battaglia; parole vuote e usate come fossero piene di senno; miseria e povertà diffuse; ricchezze che non temono crisi; ragazzotti che insozzano monumenti per dire che bisogna pulire il mondo…. Ma dai! Insomma, giorni grami.

Allora, ripenso ai sorrisi che illuminavano la contrada del mio paese quando, tra case ancora malconce e strade sterrate, cortilibuoni per ospitare legna, galline, cani, gatti e bestie varie, ma anche giochi e circoli pacificamente gustosi, pieni di chiacchiere, carezze, affetti e sinceri scambi di doni fatti di pane e salame, una viola o una margherita appena raccolte, quando, dicevo, il tempo scriveva sul proprio misterioso calendario che di lì a poco Gina e Mario si sarebbero sposati, che Agnese era appena nata o che al Giuseppe i padroni dei campi e della cascina gli avevano rinnovato l’affitto, oppure che s’annunciava l’arrivo del frate buontempone, ricco di giaculatorie e rosari ma anche di facezie che mandavano in visibilio donne e bambini. A quei tempi, il 19 di marzo era semplicemente san Giuseppe (“genitore di quel Gesù destinato a diventare lume delle genti e luce del mondo”, diceva don Fermo), simile all’odierno ma non ancora invaso da pubblicità caramellosa attorno alla figura di un babbo (forse, ma non son sicuro, era già stata inventata la festa del papà, ma altrove e non in quella fetta di campagna quieta e lontana dai flussi rumorosi e ingombranti della cronaca urlata, che semmai la festa ai papà la faceva ogni momento) a cui riservare auguri baci abbracci regalitutti in un sol giorno, dimenticandosi di renderli ogni giorno attuali con pensieri pensati e poco altro.

Ripenso al sorriso, scarso e mai esibito, di papà Gino. E pensare quel sorriso rinnova pensieri e rimette al centro di ogni cosa la serenità del tempo che restava bambino, la poesia del villaggio, il canto del giro-girotondo…, che come una litania consumata invitava ad avere coraggio e a guardare il mondo con gli occhi traboccanti di felice speranza. Però, almeno allora, che adesso sembra valga soltanto ridere a crepapelle, il sorriso era una cosa seria. In effetti, insieme allo scambio degli sguardi – ha scritto un critico e pedagogo sapiente –, il sorriso è il primo gesto che il neonato (sì e no due mesi) impara dalla madre e a lei restituisce; è il suo primo modo di dire io sono, o tu sei. Questa originaria dichiarazione ha luogo attorno alla bocca, vale a dire la porta del corpo, da dove fin dall’inizio entra l’aria e, subito dopo, il latte; in breve: la vita. Vita e sorriso abitano da sempre la stessa casa. In genere, il sorriso disarma poiché chi lo esprime per primo depone le armi…” e anche qualsiasi velleità.

Se così è, come è possibile che il sorriso si spenga e cosa significala sua perenne assenza da un volto? Appunto: che cosa vuol dire? Uno che la Divina Commedia la raccontava a memoria, mi spiegò un giorno lontano che “fatta eccezione per il solenne saluto rivolto dagli antichi poeti a Virgilio, di passaggio per il Limbo, nell’Inferno dantesco né si saluta, né si sorride. Però – aggiungeva lieto – giunto in Purgatorio, il fiorentino non torna solo a riveder le stelle, ma anche i saluti e i sorrisi”. Infatti, se la lezione del vecchio raccontatore della Divina Commedia è ancora valida (ma dubitare è necessario) “con la luce, il sorriso è la caratteristica principale del Paradiso secondo Dante. Lì tutto e tutti sorridono: fin dall’inizio sorride Beatrice e sorriderà per tutta la cantica, ogni volta di più mentre si avvicina al Sommo che abita nel più alto dei cieli, e sempre più il sorriso della donna diverrà irresistibile e indescrivibile… Il sorriso sarà il suo ultimo atto…”. E in cambio avremo avuto certezza che sorridono i santi e le sante; sorridono pianeti e cieli, sorride l’universo intero… Tanto che il Dio di Dante assomiglierà a una mamma e a un papà che accendono il primo sorriso nella loro creatura…”. Poesia melensa? Forse. Eppure spero e confido vi sia “qualcuno che riuscirà a farmisorridere di nuovo; perfino dopo un tristissimo pianto. Che potere! Eccome, se il sorriso dà a pensare; eccome, se sorridere per primi apre paesaggi che solo un poeta può immaginare…”.

Non sono un poeta, son solo un raccontatore di umani pensieri e sovrumane fragilità, uno che in vita ha scritto mille e mille articoli per giornali e riviste, qualche libro per dare senso alla vanità e cento e cento domenicali da consegnare a un’ipotetica storia a venire. Da giovanissimo leggevo “Il vittorioso”, la rivista dedicata ai ragazzi che nell’azione cattolica e nell’oratorio trovavano casa e accoglienza degne di tale nome, (coi disegni e i personaggi di un Jacovitti che era e rimaneva “genio del surrealismo, provocatore per vocazione, anarchico di centro col torto o il merito di prendere in giro un po’ tutti, dittatori di destra e di sinistra in gioventù, per continuare con l’intero arco costituzionale in età adulta, fino, colpa somma, al movimento studentesco del mitico oppur utopico sessantotto”)e “L’Italia”, il quotidiano cattolico, l’unico di cui la zia suora ammetteva la lettura -; più in là ho allargato l’orizzonte delle letture a più quotidiani; ancora più in là ho scoperto tra i mille libri imposti quelli meno noti e forse più gustosi, alcuni firmati da quel Ennio Flaiano che al critico cinematografico per eccellenza (Tullio Kezich) osava dire io detesto la curiosità dei sacrestani che mira a stabilire una verità troppo semplice: è ildifetto della nostra epoca che crea miti adeguati alle sue possibilità di distruzione” e che al direttore più direttore allora in circolazione (Arrigo Benedetti) osava scrivere “non sono stato io a offrirti un racconto da pubblicare, sei stato tu a chiedermelo; si suppone quindi che lo scrittore risponda personalmente di ciò chescrive, e non al direttore, ma ai lettori che in questo caso lo conoscono assai bene; non si scrivono racconti per i direttori… Ti ringrazio di avermi rinviato subito il manoscritto, ma mi sorprende che tu me ne chieda un altro”. Altri tempi e modi. Infatti, oggi, tutt’al più, quel che scrivi, sebben pensato, se scarsamente in sintonia col pensiero dominante, finisce nel cestino o in quel gran contenitore di balle rifiuti bugie e vanità che si chiama rete e che è buona per aggrovigliare piuttosto che per dipanare matasse di parole poco pensate e ancor meno pesate.

“Impara, figlio”, diceva Geppetto al suo Pinocchio. Stamane all’alba, mi sono chiesto: qualcuno sa se quel burattino ha davvero imparato qualcosa del tanto che il padre aveva cercato di insegnargli? Poi, leggendo la storia di Frans Hugo, un giornalista-editore novantenne che dopo aver scritto e commentato è adesso impegnato a consegnare “i suoi giornali” nel deserto sudafricano. Stufo della vita frenetica Frans ha scelto l’eremo e da lì ha incominciato una nuova vita, in un altro mondo, in un altro continente. Un’altra vita, per certi versi. Da allora, ogni giovedì, Frans parte di notte per portare lui stesso le 1.300 copie di giornale che stampa o nei piccoli negozi sparsi nel deserto che fanno anche da punti vendita per i suoi giornali o nelle case di alcuni collaboratori, i quali poi le venderanno. Milletrecento copie, viste da qui, sembrano un’inezia. Tanto più che vengono vendute a otto rand (circa 50 centesimi di dollaro Usa). Per un incasso settimanale di seicentocinquanta euro molti di noi non uscirebbero nemmeno di casa. Figurarsi fare centinaia di chilometri nel deserto dalle 1.30 del mattino a tarda sera per portare notizie soprattutto agli agricoltori che vivono in zone sperdute. Ci giustificheremmo dicendo: ormai c’è internet… Quando gli chiedono come vede il futuro del giornalismo di carta, il mio Frans Hugo risponde di non avere idea di cosa accadrà, ma di non essere preoccupato. Quello che so – ribadisce – è che, fino a quando avrò la forza, porterò le notizie nel deserto a persone che altrimenti saprebbero molto poco della loro comunità”. Che sia questa una delle cose più nobili del giornalismo? Che nel poco risieda la felicità? Che in milletrecento copie di giornale si nascondano ancora sorrisi e felicità? Che curarsi a ogni costo della comunità dei lettori, pur sapendo che pochi leggeranno e ancor meno mediteranno, è e resta magnifica soddisfazione? Che pur sapendo che i giornali e i libri di carta un giorno potrebbero anche sparire, è bello e appagante combattere ugualmente con tenacia e passione per consentire ai pensieri pensati di uscire dall’orto personale per diventare orto e giardino di tanti se non di tutti?

“Il pensato del giorno”, nobile epitaffio un po’ Robinson e tanto Bergonzoni, chiede: “I partiti, chi sono? Quelli che non arrivano perché muoiono prima o quelli che non arrivano, a capire, che non lasciare arrivare è vile da morire?”. Altrove, in un piccolo incredibile delizioso sconosciuto ma già amato volumetto che mette “aforismi sulla radice degli ortaggi” alla pari con infinite, misteriose e antiche saggezze popolari, leggo e perciò riferisco: “E’ preferibile essere amico di un vegliardo che vive in ritiro su un monte anziché frequentare cittadini affaccendati. E’ preferibile essere accolto come ospite in una capanna anziché come semplice visitatore in una ricca dimora dalle porte vermiglie. E’ preferibile udire i canti dei boscaioli e dei pastori anziché prestare ascolto ai clamori del mondo. E’ preferibile tramandare le parole e le gesta mirabili degli antichi anziché discorrere sugli errori e le colpe dei contemporanei”.

Vanno di moda la Giorgia e la Nelly, che avendo tanto altro da fare di certo non leggono. Però, se capitasse loro di smetterla di atteggiarsi, una a diva impeccabilmente ben vestita e ben pettinata, l’altra a nobile artatamente trasandata e mal pettinata, potrebbero meditare sull’aforismo numero centocinquantasette, quello che dice: “Anche all’apice delle responsabilità pubbliche non bisogna perdere il gusto di un ritiro sui monti o nei boschi; anche soggiornando in prossimità di sorgenti selvagge bisogna servare interesse per gli affari del proprio paese. Nelle attivitàpubbliche non rivendichiamo per noi tutti i meriti. E’ già un merito non commettere errori; nel rapporto con gli altri non speriamo gratitudine per le nostre buone azioni; è già una buona azione non suscitare rancori”. Se non basta, ricordino (ma anche: ricordiamo) lamen che Flaiano mise nel suo “Dolce Vitariscrivendo in chiave moderna la parabola evangelica. Quella che a me e spero anche a voi rammenta che Cristo torna sulla terra e, nella società dello spettacolo in cui è piombato (questa o quella di ieri per me pari sono), assalito da fotografi e cacciatori di autografi, sotto l’occhio della tv, fra provocatori, ruffiani, agenti del fisco, maniaci sessuali, giornalisti (e affabulatori, e scrittori) che lo inseguono, inizia la sua consueta catena di montaggio dei miracoli: sfama la folla con pani e pesci, sana vari nevrotici, converte un prete… Poi un uomo gli si avvicina, ha in braccio una figlia malata, gli dice: “Non voglio che tu la guarisca, ma che tu la ami”. Gesù bacia la ragazza. Quelle parole intepretano il suo desiderio. L’uomo ha chiesto solo la cosa essenziale, “ciò che io posso fare”, solo questo e non altro. E sparisce “in una gloria di luce, lasciando la folla a commentare quei miracoli e i giornalistia descriverli”.

E’ domenica e il mio è solo e sempre un “domenicale”.

LUCIANO COSTA

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