Il Domenicale

Umorismo, ironia, barzelletta e commedia della politica

Voleva fare l’umorista e invece divenne un barzellettiere da osteria. Si chiamava Rino, ma per tutti era diventato Rido. In effetti, con quella faccia tosta che neppure s’incrinava per far posto a un complimento delicato, non poteva fare altro. In più, non sapeva certo distinguere tra umorismo e ironia. Infatti, l’uno e l’altra per lui pari erano e restavano. Però, un giorno qualsiasi, al Rido gli spiegarono quel che il saggio Cipolla si ostinava a ripetere. E cioè che “chiaramente l’umorismo è la capacità intelligente di rilevare e rappresentare l’aspetto comico della realtà e anche molto di più. Per esempio, che l’umorismo non deve implicare una posizione ostile bensì una profonda e spesso indulgente simpatia umana”. Quindi, ovvero, ragion per cui (ditelo come volete) è chiaro che fare dell’umorismo sulla traballante durata della vita umana al capezzale di uno che, per dirla col poeta “è più di là che di qua” non è umorismo. È semmai divertente sapere che un gentiluomo francese destinato alla ghigliottina, inciampando nel gradino che lo avrebbe elevato al cippo, si rivolse alle guardie che lo scortavano regalando a ciascuna un “dicono che inciampare porti sfortuna” che meritava certamente che alla sua testa fosse assicurata migliore fortuna. In ogni caso, Rido capì che un conto era fare umorismo, un altro fare ironia e altri ancora barzellettare allegramente sull’altrui esistenza, che per norma, si sa, non sempre è felice e neppure appagante.

Quindi, una volta ancora, è bene ripetere quel che il citato Cipolla insegnava. Vale a dire, che “l’umorismo va distinto dall’ironia”, perché “quando si fa dell’ironia si ride degli altri, mentre quando si fa dell’umorismo si ride con gli altri”. E poi, se potete, fate attenzione al come li usate simili ingredienti! Infatti, e dovete saperlo, “l’ironia genera tensioni e conflitti mentre l’umorismo, se usato in giusta misura e nel momento giusto (se non ha questi requisiti consideratelo l’opposto dell’umorismo) è il solvente necessario ed eccellente per sgonfiare tensioni, risolvere situazioni altrimenti penose, facilitare rapporti e relazioni umane”. Quanto al barzellettare allegramente, meglio stendere quel classico velo pietoso invocato ogniqualvolta qualcuno o qualcuna (soprattutto se di alto lignaggio, rara potenza, considerevole ricchezza, sperticato elogio, spropositata fama, abbondante fumosità, rara bellezza, finissimo portamento e, magari, col titolo di “influencer”, o di “ormocromista” o “cromista.comunicativo” al servizio di questa o quella leader indaffarate a migliorare l’Italia nostra, una andando a destra e l’altra a sinistra) esce dal seminato porgendo così, senza attenuanti, il suo lato peggiore.

È anche sicuramente vero che esistono le eccezioni, però è sempre chiaro che “il troppo storpia” (pagare per abbinare colori di vestiti a quello della pelle, come vestire così piuttosto che cosà o aver quotidianamente sottomano chi ti pettina e lustra mi pare affettivamente troppo) e che non v’è dubbio alcuno sull’appartenenza di imbecillità e stupidità a qualunque paesaggio esistente, in costruzione, reale o immaginario. Nel caso coloro che si fossero sentiti tiratati in ballo volessero ravvedersi-pentirsi-correggersi-emendarsi-convertirsi-ricredersi-raddrizzarsi o anche semplicemente migliorarsi, ricordo che “le persone non stupide sottovalutano sempre il potenziale nocivo delle persone stupide”, anche che “in particolare i non stupidi dimenticano costantemente che in qualsiasi momento e luogo, in qualunque circostanza, trattare e/o associarsi con individui stupidi si dimostra infallibilmente un costosissimo errore”. In ogni caso, volendo e tentando, si può sempre fuggire dal paesaggio che racchiude, nel contempo, bellezze e anche imbecillità e stupidità. Basta volerlo, basta non rassegnarsi, basta ammettere la possibilità di scivolare e insieme anche quella di rialzarsi più vispi che mai.

Perché in questo, come a suo tempo scrisse Immanuel Kant, “consiste il progresso del genere umano verso il meglio”. Se così non fosse “chi afferma che il mondo sarà sempre così com’è andato finora, contribuisce a far sì che l’oggetto della loro predizione si avveri”. Secondo il “breviario” che Gianfranco Ravasi, cardinale di santa romana chiesa, scrive e pubblica su “Il Sole 24 Ore” edizione domenicale “chi si rassegna già in partenza, convinto di non poter incidere negli esiti della storia, abbandonandosi a un pigro fatalismo, è da subito votato a confermare la sua sconsolata (e comoda) predizione. Non per nulla – aggiunge il saggio estensore del “breviario” – lo stesso verbo ‘rassegnarsi’ è usato per indicare chi rassegna le dimissioni, ritirandosi dall’impegno assunto”. E ciò conferma che “il rifugio di costoro è l’inerzia, il loro cibo la lamentela, la loro autodifesa quel meschino io ve l’avevo detto, che non è segno di realismo ma solo di ignavia. In loro non c’è coraggio, c’è solo un grigiore nebbioso che impedisce appunto di incamminarsi e lottare per un futuro diverso”. Ma, attenti a chi si imbelletta di grandi sogni e di aspirazioni irrealistiche e a loro impossibili per poi autoassolversi da ogni colpa. Infatti, “costoro escogitano progetti ambiziosi e fuori dalle loro capacità per giustificare alla fine il loro improduttivo quieto vivere”. Ma, vivaddio, chi sono costoro? Io lo so e sono certo che lo sapete anche voi. Ma, basterà conoscerli per evitarli?

Nel frattempo, sul gran teatro del mondo sta andando in scena, e non da adesso, la commedia – della vita, degli equivoci, del possibile e dell’impossibile, del bello e del brutto, del tutto e del niente, delle promesse fatte e mancate, degli insulti e dei sottintesi, della politica e dell’antipolitica… –, che per i greci, forse, significava “canto del festino”, ma che ora sta lì a dire che, bene o male, si è di fronte a un’opera letteraria, in versi o in prosa, destinata alla rappresentazione scenica “di tono leggero, movimentata nel dialogo e nell’azione, caratterizzata da un alternarsi di situazioni ora liete ora tristi, la cui conclusione è di solito lieta, ma spesso anche poco seria”. In effetti, che la commedia (della vita, della politica, dell’essere e del divenire di ciascun umano) sia una cosa seria molti lo dicono, ma nessuno è disposto a giurarlo. In tal modo la realtà offre un’infinita sequenza di commedie, ognuna adatta al momento e alle diverse situazioni, tal quali a quelle legate insieme, ma solo alla bell’e meglio, da ragionamenti arzigogolati e domenicali su umorismo, ironia e barzellette.

 

Ragion per cui, quella inscenata in questi giorni dalla politica (leggi quel che è successo a proposito di scostamento del bilancio e capirai) è una commediola breve e di poco valore; quella rappresentata dai politicanti di ogni stagione e tempo una commediuccia ingarbugliata; quella poi raccontata quotidianamente da affabulatori e sfitinzie a caccia di sensazionali rivelazioni-promesse-offese è una commediona lunga e complessa, dall’intreccio complicato e volgare, in cui conta (tanto) l’apparato scenico e nulla o quasi nulla la verità; infine, quella cocciutamente messa in vista è per lo più una commediaccia, roba di cui si potrebbe benissimo fare a meno. Ogni commedia vanta attori e figuranti, ognuno impegnato a recitare una parte comandata dall’autore, adattata dal regista e invocata dal pubblico propenso, si sa e comunque vada a finire, sia a piangere, sia a ridere.

 

Se questa vi sembra la raffigurazione di ciò che sta accadendo nei luoghi in cui si dovrebbero trovare le soluzioni idonee per dare all’Italia una veste degna di tale nome, c’avete azzeccato. Quanto ai nomi da dare a ciascun protagonista aspirante protagonista figurante o comprimario della politica, fate voi, liberamente e serenamente. Personalmente, mi ostino a pensare che, salvo eccezioni, dei contendenti uno valga l’altro e tutti insieme troppo poco per meritare di stare al centro della scena. Infatti, ognuno recita a soggetto, senza però dare al personaggio il coraggio necessario per scegliere, per essere responsabile, per far valere il titolo di deputato che gli elettori gli hanno consegnato.

 

Qualcuno dirà che sto vagando per l’ermo colle senza alcuna voglia di dare volto ai fantasmi che ogni giorno s’aggirano sul gran teatro della politica. Ha tutte le ragioni, meno una: quella che mi fa immaginare chi legge dotato di tale e tanto comprendonio da fargli scoprire da solo chi gioca al coperto e che preferisce non decidere pur essendo abilitato a farlo possedendo il non casuale titolo di Deputato invece che quello di Imprestato. Il futuro è comunque aperto, anche se l’Italia ha da tempo imboccato una strada che non si sa bene dove porti. Intanto, dentro l’oggi raccontato con melensa intensità da conduttori/e, inviati/e, tuttologhi/e ed esperti/e che tutto sanno senza nulla sapere, un orso che muore e due-cinque-dieci bulli che insozzano l’aria con le loro stupide gesta ottengono più attenzioni, titoli e video di dieci-cento-mille-centomila disgraziati che muoiono a causa delle guerre, per fame e sete, perché non hanno una medicina con cui curarsi. Così la politica langue e manca poco che sul ponte sventoli bandiera bianca. Uno scrittore e anarchico svedese, ha detto che “il giornalismo è l’arte di arrivare tardi il più in fretta possibile”. Ascoltando i politici impegnati nella conquista del titolo di “capo” (della coalizione, del gruppo, del partito, della maggioranza, della minoranza, degli stabili e degli instabili, dei dissidenti e degli osannanti, dei possibilisti e dei negazionisti, dei sostenitori e dei detrattori della verità, della combriccola che al vecchio non rinuncia, della congrega che li vorrebbe tutti giovani fuori e vecchi dentro…) ho avuto anch’io l’impressione di voler “arrivare tardi il più in fretta possibile”. Un vero incubo, credetemi.

LUCIANO COSTA

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