Si chiamava Libertà e settantasei anni fa, un giorno d’aprile avanzato, scese dalle montagne e inondò col suo profumo e con la forza dei suoi ideali ogni angolo abitato, tutte le valli conosciute e sconosciute, la grande Padania e il suo amico fiume, qualunque altra pianura, ogni collina o balza, le città, i paesi e i borghi. Quella era l’Italia, e a lei e al suo popolo, in quel 25 aprile 1945, Libertà portò il dono più bello: la libertà. “Custoditela e onoratela” disse il partigiano ai ragazzi e ai giovani che lo ascoltavano. Tra loro c‘erano I nati in quel magnifico 1945, figli della Libertà, primi destinatari del suo magnifico messaggio. Continua a chiamarsi Libertà il sogno che sulla montagna aveva ritrovato la sua forza originale, e seppure con veste diversa, è lo stesso che oggi si rinnova chiedendo a chiunque di unirsi per andare oltre le paure e le sofferenze inferte dal virus, nuovo e inatteso dittatore. Non smette di risuonare quale ammonimento ciò che Dante declama avventurandosi verso il purgatorio, quando, guardando a chi lo sta accompagnando nel viaggio, ognuno col suo bagaglio colmo di pene e di pensieri, li affastella e li annovera tra chi “libertà va cercando” invitandoli a ricordare “ch’è sì cara…”, come ben sa non solo “chi per lei vita rifiuta”, ma chiunque che per conquistarla la propria vita ha donato.
Onorando il 25 Aprile, Sergio Mattarella, il presidente degli italiani, ha ieri di nuovo ripetuto le parole che il partigiano aveva regalato ai ragazzi e ai giovani che l’aspettavano, mettendole in sintonia col dovere di farlo insieme, perché solo camminando uniti e costruendo insieme piazze e città nuove, chiedendo a Libertà di essere compagna del viaggio, “andremo oltre le vecchie e le nuove paure, sconfiggeremo il male, ritroveremo la gioia di essere popolo…”.
Quando, anni fa, chiesi a Wolfgang Huber di riassumere la lezione che suo padre, martirizzato dai nazisti a causa del suo amore per la libertà, gli aveva lasciato in eredità, egli non declamò il passato, ma guardando al futuro mi disse che c’era ancora “tanta strada da fare se davvero vogliamo costruire un mondo di pace; che non è dimenticando o chiudendo gli occhi che si allontana il pericolo della dittatura”. Mi ricordò anche che “l’uomo vive non di solo pane: vive, soprattutto, dei suoi ideali, delle sue speranze e dei suoi desideri per il futuro. In questo senso –aggiunse – ogni democrazia vive se vivono uomini e donne disposti a sostenerla, se essi non rinunciano alla speranza di riconoscere ed evitare, ogni giorno, il veleno antidemocratico”. Così, semplicemente, Wolfgang confermava a me e a chi era disposto ad ascoltare che “il ricordo del passato è anche un contributo attivo dato al mantenimento della libertà e della democrazia, beni e valori che non sono di qualcuno, ma di tutti”.
Prima ancora, sulla stretta strada Camuna che salendo verso Monno invitava a rinnovare il pellegrinaggio compiuto da tanti innamorati della libertà – Partigiani, Fiamme Verdi, uomini e donne diventati Ribelli per amore –. il prete che coraggiosamente aveva condiviso con loro il tempo della Resistenza, non esisteva ogni volta a fermarsi dove un Croce segnava il cammino per recitare una preghiera in memoria di Bortolo Fioletti, detto “Poldo”, forse l’ultimo partigiano ucciso dai fascisti in fuga quando il calendario già segnava la data del primo maggio 1945 e il vento della ritrovata libertà soffiava forte e risoluto per annunciare la fine dell’orrenda guerra e l’avvento di nuovi orizzonti di pace e di concordia per tutti, ma non per Bortolo, del raggruppamento delle Fiamme Verdi locato sul Mortirolo, ribelle per amore. Bortolo Fioletti, per tutti soltanto Poldo, aveva appena 18 anni. Nella lettera scritta alla mamma pochi giorni prima di morire diceva: “Cara mamma, non piangere, perdonami e pensa se io fossi tra coloro che martirizzano la gente… Io sono qui per nessun altro scopo che per la fede, la giustizia e la libertà; e combatto sempre per raggiungere il mio ideale… Presto verremo già e vedrai che uomini giusti saremo. Allora si vivrà con la soddisfazione di vivere e non con l’egoismo di oggi”. Con la mano appoggiata sulla croce che ricordava il sacrificio del giovane, don Giovanni pregava e invitava a condividere la sua preghiera.
Invitato a ricordare due grandi interpreti del passato – don Giacomo Vender e Cesare Trebeschi: uno sacerdote, cappellano militare, ribelle per amore, prete degli sfrattati, parroco e cittadino esemplare; l’altro staffetta e portatore di aiuti ai partigiani, avvocato, sposo, padre, nonno, servitore della città terrena – ho saputo soltanto ripetere ciò che di loro era già stato detto. E cioè che “non erano certo vissuti invano”.
Di don Giacomo rilessi quel che il suo amico chiamato a ricordarlo a un anno dalla sua morte (lo stesso don Giovanni che aveva guidato il pellegrinaggio sulle strade di Monno) aveva detto. “In modo particolare – aveva sottolineato – dobbiamo insistere sulla posizione che lui ha preso e che lui ha mantenuto, davanti all’ufficiale tedesco che lo interrogava, quella che confermava come noi preti, anche se l’Italia cambia padrone, dobbiamo rimanere al nostro posto e servire il nostro popolo; e se voi potete avere gusto di cambiare padrone, noi non possiamo cambiare padrone. E allora – rammentava – don Vender, un cuore tenerissimo ma una testa dura, come quella del granito che sta al suo posto, è per noi un esempio magnifico anche per l’avvenire”.
Di Cesare Trebeschi, andato avanti appena un anno fa, rammentai il riserbo con cui si avvicinava alla storia e alle storie di uomini e donne che con lui avevano cercato libertà e democrazia; dissi che insistevo a parlare con lui di Resistenza, di Partigiani, di Fiamme Verdi e di Ribelli per amore convinti che solo ribellandosi sarebbe stato possibile far crescere forte e orgogliosa la pianta di un amore sconfinato e alimentato dalla libertà; ricordai che Cesare si commuoveva, parlava lento, pesava le parole, cercava riscontri tra i fogli sparsi, inanellava nomi e ricordi, riassumeva vicende complicate e giorni indimenticabili.
In risposta alle parole dedicate a don Vender, un vecchio e dichiarato mangiapreti, mi ha mandato a dire che “è dubbio il ruolo dei preti nella Resistenza”. Gli ho risposto che nessun dubbio può sussistere per coloro che la vita e la missione le hanno messe a disposizione di chi era oppresso e cercava libertà. Ciò non toglie, gli ho fatto sapere, che vi fossero state differenze vistose anche nel comportamento tenuto verso quei preti che salivano in montagna (o chiedevano il permesso di farlo) per svolgere le funzioni di cappellani militari presso le formazioni partigiane. Per esempio, a Modena monsignor Boccoleri minacciava la sospensione a divinis ai preti che si recavano in montagna. Ma a Brescia monsignor Tredici aveva nominato padre Luigi Rinaldini “curato di tutte le parrocchie della diocesi” con il permesso speciale di predicare, confessare, comunicare, celebrare la messa con o senza i sacri paramenti in qualunque ora e luogo della diocesi, autorizzandone in tal modo la presenza presso i partigiani. E sempre a Brescia don Angelo Pietrobelli, segretario del vescovo Giacinto, era impegnato nelle reti di soccorso sfidando costantemente la rappresaglia fascista.
Dal primo 25 Aprile sono passati settantasei anni, neppure uno consumato e dimenticato. Il vento della libertà, che allora riempì di nuove speranze ogni angolo d’Italia, soffia ancora: per me, per voi, per chiunque voglia di nuovo spalancare porte e finestre.
LUCIANO COSTA