Il Domenicale

Un anno in compagnia del virus…

Un anno fa a Codogno, sconosciuta cittadina collocata tra Lodi e Milano, l’influenza smetteva di essere un inciampo stagionale e diventava una pietra d’inciampo tanto grande da non poter essere superata e rimossa da nessuna medicina e neppure dall’unione di tutti i medici e infermieri disponibili. A Codogno, un an no fa, Covid-19, virus scoperto addosso a un giovanotto che a prima vista poteva ben essere il ritratto della salute, incominciava l’anno orribile: bisesto-funesto-ammorbato-complicato-odiato-subito-luttuoso e poi, giorno dopo giorno, sempre più tremendamente capace di scombussolare certezze, demolire speranze, affievolire sorrisi, trasformare in polvere i sogni così a lungo cullati, costringere gli umani a fare i conti con la morte invece che con la vita. Un anno fa, improvvisamente, uno sconosciuto virus obbligò i cittadini di quella zona a fare i conti con la prima zona rossa, allora un campo di concentramento osservato a vista dentro il quale arrivavano vettovaglie e medicinali, ma dal quale uscivano soltanto lamenti, paure, preoccupazioni incertezze…

Fuori da Codogno, mentre restava lontana l’idea che quel morbo potesse allungare i suoi artigli sul resto del territorio, la vita restava più o meno normale, forse in attesa di chissà quale evento o forse già rattrappita in un guscio creato apposta per proteggersi da qualcosa ancora indefinito ma terribilmente pericoloso. Dieci giorni più in là, il guscio creato apposta per difendersi veniva ridotto a brandelli dalla potenza del virus. Allora, ricordo, quelli di Codogno e dintorni, erano considerati tal quali gli appestati di manzoniana memoria: portatori di male e di affanni. Erano invece semplicemente vittime di qualcosa di cui nessuno conosceva l’origine ma che tanti erano disposti a giurare proveniente dalla Cina. Sempre allora, ricordo, quattro giovani che avendo fattezze e viso tipicamente cinesi furono presi a male parole da altri giovani, come loro arrivati per sciare e divertirsi, che li ritenevano già colpevoli di tentata pandemia. Due giorni dopo iniziava il primo lockdown: tutti in casa, tutti costretti a fare i conti con mascherine e divieti, tutti pronti a scansare i cinesi, tutti disposti a fare sacrifici ma anche a invocare dal Governo in carica provvedimenti, di qualunque tipo, purché immediati e risolutivi.

Sappiamo che non tutto è andato come si sperava andasse. Invece, è noto che proprio da quel momento toccò ai numeri – quelli dei morti, degli ammalati e dei guariti – dire a che punto era la notte, alle immagini raccontare paesi e città deserti, alle parole sommarsi e diventare pagine di un romanzo che non si sapeva come e quando avrebbe trovato compimento, ai giorni diventare un monotono ripetersi di gesti intervallati da lunghe sequenze di preghiere innalzate a un Dio che doveva e poteva vedere e ascoltare tutte le umane miserie, per chiedergli misericordia, ma anche da interminabili bestemmie urlate contro quell’altro Dio che non ascoltava e non vedeva il dolore e lo strazio del suo popolo.

In quei giorni terribili la moglie di un medico colpito da Covid 19, in quei giorni terribili postò un video in cui raccontava la ferocia dell’isolamento a cui era costretta, la solitudine che le era imposta, l’impossibilità di avere accanto un soffio di umanità, l’incertezza che la circondava e tormentava, la paura di un dopo che si annunciava devastante, l’impossibilità di mettere d’accordo il tumore già sopportato con la logica del nuovo virus, lo scoramento diventato ospite fisso della sua casa… Il tutto racchiuso in una frase finale che riempiva d’angoscia. “Io e mio figlio – diceva la donna – ci sentiamo abbandonati”.

In quell’incedere di giorni tutti uguali, gli amici di Bergamo mandarono a dire che non ce la facevano più, che il peso della tragedia li stava soffocando, che le pagine e pagine di necrologi ospitati dal loro quotidiano erano colpi di cannone sparati ogni giorno contro il muro di speranza ostinatamente eretto nel corso degli anni. Gli amici di Cremona, quelli che ai primi tepori primaverili già prevedevano sedute sull’argine del Po rallegrate da pane, salame e uova, erano invece lì a confermare che inanellavano soltanto ore e ore consumate a piangere sui morti ammazzati dal virus. In quel dannato trambusto i contadini della Bassa, quelli che la stalla era di tutti e l’aia buona per tutti i giochi, trovarono il coraggio per andare dal prete e chiedergli se non fosse il caso di rimettere in circolo le “rogazioni”, quelle processioni che il mattino presto partivano dalla chiesa madre per andare a toccare i quattro punti cardinali, fermandosi a ciascun angolo per pregare e invocare pietà e comprensione per peccatori e peccatrici impegnati a chiedere alla terra di essere, nonostante tutto, benigna con loro. Un coldiretto puro e sincero, già abituato a fare i conti con i capricci delle stagioni, accese tutte le candele benedette accumulate in vent’anni di devozioni e frequenza ai sacri riti chiedendo al lume di rischiarare la strada su cui camminava la ricerca di un antidoto al virus e al fumo di confondere le idee ai virus in circolazione.

In una di quelle domeniche tragiche, senza avvisare e senza chiedere accompagnamento, papa Francesco andò in due chiese romane a pregare e a chiedere misericordia. Un giovedì qualsiasi, quattro suore hanno trascorso la giornata al santuario della Madonna di Caravaggio inanellando rosari e intonando dopo ogni diecina quel “mira il tuo popolo, bella Signora, che pien di giubilo oggi ti onora” il quale, secondo la pietà popolare, da sempre vale più di ogni altra invocazione.

Un anno dopo Codogno mi ritrovo a riflettere sempre sulle medesime cose: la vacuità delle umane certezze, il valore della solidarietà, il sentire religioso, la potenza della medicina, la volatilità dei politicanti, l’assurdità delle classificazioni (poveri, ricchi, felici, infelici), che la loro valenza la perdono non appena la morte si presenta alla porta, la caducità delle promesse e l’insostenibilità di qualunque progetto non sufficientemente supportato da cuori, menti, mani e braccia generosi.

Ho anche letto da qualche parte che c’è una stagione della vita che più di altre si presta a dimostrare la fondatezza e la praticabilità della solidarietà. Sarebbe quella che i sociologi definiscono “terza” e la gente normale “anzianità”. La quale non è la stagione più facile, ma certo la più completa. Essa, infatti, dimenticati e subito sostituiti gli ardori e le pretese della fase intermedia con la pacatezza del giudizio e con la tenerezza dei sentimenti, consente di vedere al di là della personale sfera dei bisogni per considerare quelli dell’altro preminenti e perciò degni della massima attenzione.

Se tutto questo è vero, è urgente rimettere l’anzianità al centro degli interessi e di ridare agli anziani il valore che hanno faticosamente conquistato. Non basta più dire “senza di voi ci sentiremmo orfani e poveri di saggezza” e neppure aggiungere che “voi siete sempre benvenuti e attesi”. Quel che serve, invece, è non mettere confini tra noi e loro, tra il loro e il nostro mondo, tra le pretese del nostro produrre tanto e il loro diritto a produrre il necessario o anche solo il possibile.

Qualcuno dirà che un simile modo di intendere la società equivale al tornare a un “come eravamo” non più attuale ed esigibile. E se invece fosse vero il contrario, se cioè quel che sta accadendo intorno a noi, causa coronavirus, altro non fosse che l’ammonimento a tornare alle origini o, quanto meno, a fare un passo indietro? Un passo talmente lungo da portarci fino al punto di ammettere che allora si viveva meglio, quando ci si accettava per quello che si era, quando solo raramente – e con l’unico scopo di impedire alle bestie di usurpare lo spazio riservato alle persone – si sprangavano le porte, quando c’era sempre una scodella di minestra calda per il mendicante e una paletta di farina per il povero, quando si esercitava il “mutuo soccorso” e al tepore della stalla, uguale per tutti, prendevano forma i progetti e si consolidavano le speranze. Anche quando nella canonica del vecchio parroco si componevano le liti e sul campetto dell’oratorio si esaltava la pacifica convivenza.

Tempi andati. E oggi? Ognuno risponda per quel che gli compete, magari preoccupandosi di rimettere al centro la persona, in modo da restituire a questa società tutto il valore di quei “valori” – onestà, religiosità, solidarietà, salute, rispetto, onore, patria, verità, libertà, accoglienza, giustizia, pace – che hanno fatto grande le nostre città, che sono e restano l’universo in cui si mischiano senza perdere i rispettivi connotati, ruralità e industria, modernità e tradizione, vecchiaia e gioventù, fiducia e speranza.

Un anno dopo Codogno, con l’unica pretesa di ricordare e ringraziare, è stata celebrata la “Giornata dei Camici bianchi”, dedicata a medici, infermieri, volontari di ogni tipo che il loro tempo l’hanno messo a disposizione dei malati. Se alle solite parole aggiungessimo pensieri pensati e ringraziamenti non convenzionali, già adesso potrebbe incominciare una nuova storia di solidarietà e di gente che si scambia sorrisi. Allora, quel giorno, sarà un giorno davvero nuovo.

LUCIANO COSTA

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