Un bosco fitto di domande e povero di risposte…

Dicevo tra me che se certi politici in libera uscita, prima di parlare e sparlare, leggessero qualche pagina di qualche buon libro (ce ne sono, benché spesso messi all’angolo più oscuro della libreria), eviterebbero di passare per sciocchi venditori di niente, per di più incapaci di ragionare senza ricorrere ai pensierini imparati a memoria, utili a fare scena e a impressionare gli uditori ma n on per dare senso compiuto alle parole pronunciate. Sempre tra me, pensavo che in parecchie occasioni ai parlanti politici bisognerebbe aggregare un traduttore intelligente, cioè capace di far comprendere la lingua e la cultura dell’assistito: buone se buone o grame se prive di senso e costrutto. Ho scoperto tra appunti dimenticati quel che Saverio Strati, scrittore impegnato a delineare la vita dei contadini, attribuisce al ragazzo di campagna che all’improvviso scopre l’esistenza di un mondo che va al di là dei filari di pioppi e gelsi che ricamano la sua pianura. “Gli fu chiaro come l’acqua della fontanella laggiù – dice – che se tu leggi o scrivi e questo viene capito da tutti coloro che sanno leggere o scrivere, tu non sei solo, tu non sei più uno”.

Senza frugare tra gli appunti e le pagine arricchite da sottolineature, ho letto la domanda che una ragazza di montagna mi ha rivolto dopo aver letto il domenicale scorso. Mi chiede: “Dove incomincia e, soprattutto, dove finisce il diritto di informare? E’ lecito mettere un paese nella condizione di sentirsi non più un agglomerato di case abitate da persone civili, ma la residenza stabile di mostri senza pietà e senza umanità? E’ davvero impossibile immaginare che il rispetto delle persone è più importante di qualunque esigenza di cronaca e di spettacolo?”. Si riferiva a Temù, ma anche a qualunque altro luogo in cui si consumano la caccia ai colpevoli, la ricerca di lati oscuri e macabri, la corsa all’intervista di grido (io, il microfono, il citofono e le domande più banali, vuote e inutili…), il piacere di sbattere in prima pagina perfino i sospiri e le lacrime.

Ho risposto alla ragazza di montagna che, purtroppo, non c’è limite al peggio; le ho anche raccomandato di portare alla gente briciole di umanità, manciate di verità e abbondanti razioni di pazienza e mitezza; le ho suggerito di leggere e far leggere, ascoltare e far ascoltare chi si prende cura delle parole, chi le coltiva in silenzio (le parole ne hanno bisogno), chi prepara il terreno e lo dissoda prima di seminarle, chi si curva sulla pagina, sul microfono e sulla telecamera con umiltà e rispetto delle persone, consapevole di essere cronista del tempo e non suo giudice incontrastato, chi si sforza di dare vita a pagine e immagini curate “dove ogni parola è a casa, al suo posto per sostenere le altre”, perché una pagina o un servizio televisivo curati sono “un edificio stabile, resistente alle intemperie; è spazio accogliente, lo si abita volentieri”.

Nel frattempo, dato che niente e nessuno può impedire agli sciocchi di mostrare la loro sciocchezza, sui social, sempre più imbevuti di mitomania, vanagloria, violenza e ignoranza, imperversano ospiti mitomani, vanagloriosi, verbalmente violenti o orgogliosamente ignoranti, magari scelti dai partiti per farsi rappresentare in tv. “La cosa paradossale – ha scritto un esperto di mas-mediologia – è che i politici che vanno in tv, mediamente, sono quelli ritenuti dal partito di riferimento i più bravi, brillanti ed efficaci, comunicativamente tra le fila di chi, per andare in tv, sarebbe pronto a sostenere tutto e il suo contrario”. Il risultato è un caravanserraglio in cui vince chi abbaia e mai chi pensa. Antonio Polito dice che “a furia di sbranarci l’un l’altro nella polemica politica rischiamo che non resti più nessun tessuto di umanità comune”. Quella che ha fatto dire alla sorella di Stefano Cucchi, a proposito dell’inchiesta su Morisi (la bocca di fuoco al servizio di Salvini, delegata a inventare improperi e slogan utili a demolire qualunque avversario): “Lo perdono, perché mi piace pensare che abbia capito”.  Il notista parla allora della necessità di “capire e compatire”, che le grandi religioni la chiamano misericordia, che poi è anche il principio fondamentale di ogni criterio di giustizia, quello che prima di tutto stabilisce di “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te stesso”. Basterebbe questo per rendere l’Italia migliore di quella che è.

Ho provato decifrare i discorsi di certi politici di ventura, soprattutto quello di un noto celodurista, e ho scoperto di essere di fronte a un vero e proprio funambolo che le parole non le conosce ma le attorciglia, che i pensieri non li cura ma li vende come se fossero rose fresche e profumate, che dice senza dire niente, che spara nel mucchio senza il minimo rispetto per la verità… Se ci fosse ancora in giro John Dryden (non cercatelo, se ne è andato quattrocento anni fa) di costui direbbe che è tal quale all’equilibrista che “cammina sulla corda con le gambe legate: quand’anche, usando prudenza, riuscisse a non cadere, il pubblico non potrebbe pretendere da lui grazia di movimenti; e, checché se ne dica, si tratta di un compito insensato, giacché nessun uomo assennato correrebbe il rischio di rompersi l’osso del collo per un applauso”. Nessun uomo o donna assennati non correrebbe simile rischio, ma qualunque signore scarso o scarsa signora, sì.

Mi hanno portato a fare simili ragionamenti fatti e accadimenti degli ultimi giorni: certo  quelli di Temù, ma poi il dramma dell’ambasciatore assolto con formula piena dopo essere stato vilipeso e privato di ogni suo diritto e dignità, la condanna di Mimmo Lucano, che voleva fare il sindaco di tutti e che è finito stritolato dall’assenza di umanità di leggi e giudici chiamati a interpretarle e applicarle… Dice Carlo Verdelli nel suo libro ultimo (“Acido, cronache italiane anche brutali” edito da Feltrinelli) che “raccontare, cercare di capire, provare a spiegare in modo trasparente” è compito e dovere di un  giornalismo  cosciente che il suo “non è un affare complicato, ma un mestiere civile che richiede devozione e passione”. Invece “la tentazione della frase fatta, del luogo comune, del giudizio prefabbricato è in agguato a ogni capoverso (anche a ogni accensione di microfono e telecamera), perché è meno laborioso e più rapido scrivere (dire) se si ricorre al risaputo, al già sentito…”.

Vorrei dire a quel conduttore che regge le sorti del “pomeriggio televisivo marca Rai”, di smetterla di misurare lo studio vorticando passi e gesti, di preoccuparsi invece di dare alla gente il necessario per capire, di non avventurarsi nei pettegolezzi, di essere strumento di comprensione piuttosto che di confusione. A lui e ai suoi emuli (tanti, suddivisi nel vastissimo cesto-contenitore di facezie e emozioni contrabbandate per omaggio al diritto di sapere) consiglierei di leggere, rileggere e magari imparare a memoria quel che lo scrittore racchiude nel suo libro laddove dice che “il giornalismo dev’essere inquirente ma non giudicante” perché “il suo compito non è emettere sentenze, non è difendere op accusare, ma piuttosto raccontare per restituire al lettore volume e peso delle cose, profili di persone, atmosfere, colori, odori dei luoghi spesso minimi nei quali l’enormità della vita, senza dare preavviso, schianta e cancella il  nostro transito”. Perché il giornalismo “è provare a immaginare quello che non si sa e non si vede, però facendolo senza la presunzione di saperlo già, accompagnando il lettore in un bosco fitto di domande e povero di risposte”.

Oggi medito e domani rimedito. Chissà, forse smetterò di essere un propositore di parole e diverrò un mediatore di parole pensate. Chissà…

LUCIANO COSTA

Altri articoli
Il Domenicale

Potrebbero interessarti anche

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Compila questo campo
Compila questo campo
Inserisci un indirizzo email valido.
Devi accettare i termini per procedere