Il Domenicale

Un circo, tanti sogni, qualche stralunato, nessuna strabomba…

Guardo quel che accade e ho l’impressione di essere spettatore di qualcosa che accade solo nell’immaginifico “Cirque du soleil”, il circo del sole (genere unico e forse irripetibile), in scena a Roma e prossimamente a Milano: un sogno. Un sogno elevato a spettacolo: bello, unico, avvicinabile, assimilabile e commestibile ai più. Un sogno che in scena sembra vero, ma che fuori scena è e resta semplicemente un sogno. Come se si fosse obbligati a fare i conti con due vite: una vestita sempre a festa, allegra e spensierata, senza problemi e senza intoppi; l’altra condita con problemi, rinunce, attese, speranze, squarci d’azzurro e altrettanti squarci di temporali e tempeste, sempre piena di illusioni, sempre scarsa di certezze, sempre avara di pensieri degni d’essere pensati, sempre ricca d’offerte che sembrano messe lì per essere raccolte ma che, invece, libere e gratuite non lo sono e non lo saranno… Per mettere d’accordo le due vite, ammesso che l’importante, nella vita, sia restare umili, allora sarebbe il caso di abolire per decreto (alla maniera di questo o quel governo che di decreti strani, per non dire incomprensibili, si alimenta e alimenta la sua supponenza) anche i sogni. Perché, credetemi, sognare di essere immersi nella pace e nella concordia e poi svegliarsi scoprendo che pace e concordia son parole finte, non è bello, neppure benefico, men che meno salutare sano utile e vantaggioso. Anzi: è deleterio-dannoso-nocivo-pernicioso-rovinoso-esiziale-funesto, per lo più urticante-urtante-antipatico-piacevole-irritante-odioso-scostanhte-sgradevole-idisponente-offensivo quando invece vorremmo fosse simpatico-piacevole-accattivante-allettante-attraente-gradevole e gradito…

Guardo politici e politicanti in frenetico movimento: chi per dire “viva” e chi per dire “abbasso” un  giorno che ricorda la fine dell’oppressione fascista; chi per sostenere il valore della libertà ritrovata in quel magnifico-gradito-atteso 25 Aprile 1945 e chi per sproloquiare attorno al “si stava meglio quando si stava peggio”; chi per comprendere il bene, fatto di libertà e di democrazia, racchiuso nella Costituzione nata da quel 25 Aprile e chi per denigrare quel bene assoluto e irrinunciabile; chi per invocare nascite e chi per impedirle; chi per invocare pace e concordia e chi per vedere nella guerra scatenata contro qualcuno l’emergere dell’assurdo diritto che al più forte regala comunque e sempre la prima fila; chi per servire e chi per essere servito…

Mi torna alla mente il Giorgio Gaber, amabile stralunato in un mondo che già allora era assai poco amabile e per nulla stralunato, che a teatro portava “Il dio bambino”, un monologo che metteva in scena la divinità tirannica che mi fa ripetere ossessivamente “io io io”, ignorando del tutto gli altri e, soprattutto, escludendo il “noi”. Se interessa, quello raccontato dal magnifico e spesso incompreso menestrello, era “il dio bambino” chiamato a interpretare una normalissima storia d’amore capace però di indagare su quello che oggi dovrebbe essere un uomo, le sue caratteristiche, la sua maturità. Niente più di una storia d’amore che potrebbe essere capitata a chiunque: un uomo a confronto con una donna, il miglior testimone per mettere in dubbio la sua consistenza e il suo essere adulto. E a distanza di trent’anni (quel monologo Gaber lo scrisse infatti nel 1993) “il dio bambino”, è ancora un testo di incredibile forza, attualità, e lucidità, cinico e commovente. Anche utile, ovviamente se e come qualcuno, magari chi sta temporaneamente in alto (forse stabilmente o forse solo occasionalmente), voglia leggerlo o rileggerlo…

Ricordando, rileggo un contemporaneo pazzo e anche lui menestrello portatore di parole che contorcendosi rivelano la loro buona essenza, che da buon stralunato tra stralunati chiede: “E se esistesse da qualche parte la corrida dei castori? Se stessimo vivendo sopra shock e non ci accorgessimo dei traumi che abbiamo sotto gli occhi? Se smettessimo di piacere e cominciassimo a dover volere senza potere? E se morire in ascensore servisse per portarci su di un altro piano? Se credessimo almeno nell’aldilà, di tutto? E se i nostri principali disturbi fossero solo alimentali (avendo avvelenato anche il cibo per la mente)? Se scoprissimo che stiamo mangiando nel piatto su cui altri hanno sputato? E se l’Italia non fosse uno stivale, che calcia, ma un guanto che calza e servisse per non far scivolare via la presa, in carico, di chi ci chiede una mano? Se la transiberiana riuscisse finalmente a cambiare sesso in treno prima di arrivare a Mosca? E se ai condannati alla pena capitale non dessimo solo la bicicletta elettrica ma li portassimo nella capitale dove non esiste la pena di morte? Se ci ubriacassimo solo col “Calvino” bianco o rosso purché Italo?”. Aggiunge poi lo stralunato che in tal modo “si scioglierebbe il nostro unico modo di vivere”, non più allegato al generico e religiosissimo “sorsum corda”, ma dentro il vivere quotidiano, per magari cambiarlo in meglio. Però, si sa, al giorno d’oggi la formula “sursum corda” può essere sentita nel linguaggio comune quando qualcuno intende fare una generica esortazione a farsi coraggio tenendo alto il morale e l’umore. Quindi, più o meno, esso è un modo forbito (direttamente acquisito dalla Messa) per augurare a qualcuno di stare bene e su col morale.

Per star su col morale leggo allora la trama del nuovo spettacolo offerto dal “Cirque du soleil”. Tutto incomincia da una domanda: “E’ possibile alterare la realtà con il potere della nostra immaginazione?”. I bambini, primi spettatori, dicono che è possibile. Infatti, durante il viaggio, loro sorridono e si ritrovano a bocca aperta. Ma non soltanto loro restano a bocca aperta. Io, per esempio, che sono anziano ma non proprio vecchio, stupisco e sorrido scoprendo che il tempo può fermarsi e segnare indisturbato il non trascorrere di ore e minuti, come se tutto accadesse senza essere accaduto, come se fossimo andati e tornati in una realtà alternativa, irreale e sognante… Fra poesia e sorrisi, swing, acrobazie a un passo dall’impossibile, cambi di scena in un soffio, fra tempo e spazio impastati e rimodellati, il divertimento inteso come uscita momentanea dal solito e pesante quotidiano, è assicurato. Sotto il tendone sfilano il cercatore ingenuo e ingegnoso, l’innocenza di un bambino che crede nell’esistenza di un mondo che custodisce i sogni più belli e che tutto sia possibile; poi due robot bizzarri, costruiti dal cercatore stesso con scarti e parti riciclate, creature imperfette e funzionali; a seguire l’uomo fisarmonica” (il tuttofare, un po’ timido, impacciato e molto sensibile), musicisti, acrobati, giocolieri, percussionisti, ballerini e comici, ognuno impegnato a miracolo mostrare ma anche il suo opposto, che a tratti ha il volto della malinconia. Ecco allora che in scena, insieme ai sogni, appaiono l’uomo forte e la bambola dal viso di porcellana, gli ospiti di una cena sbalorditi da un commensale in grado di far muovere un lampadario sospeso sopra le loro teste e da un altro che lo sfida impilando sedie per raggiungere il lampadario costringendo così i presenti, tutti quanti nessuno escluso, a rendersi conto che il loro esatto doppio esiste in un universo a specchio proprio sopra di loro, ma… sottosopra, a gambe… all’aria. coi piedi a far da testa e la testa a far da piede… Sogno oppur son desto? Son desto e lo spettacolo, ahimè, è solo “un omaggio alla fantasia e alla curiosità” che si muove tra poesia e umorismo lasciando che “il visibile” diventi “l’invisibile” consentendo così alle prospettive di trasformarsi in quello che devono essere: quadri di un’esposizione, reale e quotidiana, della fatica del vivere.

Mi convinco della necessità di addomesticare (vuol dire: rendere meno feroce) il tempo. Ma, si può addomesticare il tempo, si può addirittura “comprarlo” o è solo parte del sogno che assale anche quando si è desti? Dice il saggio che un minuto vale una vita e una vita non vale un minuto se mal intesa o peggio spesa. Un tale, visto in un film di successo, a cui la trama impone di vivere e di bruciare gli anni alla velocità dei giorni, sebbene completamente assorbito dal lavoro, ha tempo per accorgersi che a ogni alba ha già consumato dodici mesi della sua esistenza. Insomma, a costui (ma non è che costui siamo tutti noi?) il tempo gli sfugge letteralmente di mano e con esso svaniscono drammaticamente anche i legami umani più importanti Politici e politicanti oggi in scena per contendersi fazzoletti di notorietà non lo sanno, ma il tempo gli sta inesorabilmente sfuggendo di mano…

Però, vorrei almeno fermare il tempo, giusto il tempo necessarioper leggere e far leggere quel che Mario Lodi, poeta e menestrello anche lui stralunato, scrive in “favole di pace” immaginando che la strabomba” costruita dal signor Palanca per far male a un nemico che in realtà neppure esisteva, di fatto era solo un pallone pieno di coriandoli e facezie. Se la favola non la conoscete e vi stuzzica conoscerla, eccola. Dice e racconta che

Nella sua fabbrica padron Palanca faceva le bibite con gli scarti del petrolio. Ma nessuno comperava quelle bibite perché non piacevano. Allora inventò una pubblicità televisiva per convincere la gente a bere. “Una bibita da re per la mamma, per il papà e per te!”. Così tutti le bevevano… e lui diventò ricco ricchissimo quasi come il re. I ricchi sono sempre amici dei re e anche padron Palanca lo diventò.

Una sera andò a cena nel suo castello gli disse:“Ho un’idea! Perché non facciamo una grande guerra? Io ti costruirò una strabomba che nessuno ce l’ha e tu mi darai centro stramilioni. Io diventerò il più ricco del mondo e tu il re di tutta la terra”.
“Bene” disse il re, “ma come si fa a convincere la gente a fare la guerra per noi?”.
“Ci penso io” disse padron Palanca. Diventò capo della tv e fece un telegiornale pieno di pubblicità che diceva: “È bello combattere per il re e per me”.
E la gente credeva alle sue parole bugiarde, come beveva le sue bibite.
Padron Palanca nella sua strafabbrica nuova costruì la strabomba, gli aerei, i carri armati, i fucili e tutto quello che occorreva per fare la grande guerra. E vendette tutto al re per centostramilioni.
Il giorno della guerra il popolo, in piazza, guardava sul maxischermo il re e il generale Palanca.
Il generale diceva: “La guerra è incominciata. Fra poco vedrete l’aereo che sgancia la strabomba sul nemico. Noi siamo i più forti e vinceremo. Via il re e viva me!”.
L’aereo era arrivato sulla grande città e il generale ordinò: “Butta la strabomba sul nemico!”.
Il pilota guardò giù e vide bambini che giocavano. E pensò: “Se sgancio li ammazzo!” E volava sulla città che brillava al sole in cerca del nemico.
“Butta la bomba” ordinò il re arrabbiato.
Il pilota non ubbidiva, volava e cercava il nemico, e diceva: “Vedo solo bambini e gente che lavora… Il nemico non lo vedo… Il nemico non c’è”.
Il re e il generale gridarono insieme: “Sono loro il nemico! Sgancia e distruggili!”.
Ma il popolo e i soldati urlarono tutti insieme: “N
o”.
Urlarono tanto forte che il pilota li sentì. Allora tornò indietro, volò sul castello e disse al re: “La bomba la butto addosso a te!”.
Insieme al generale il re scappò e da quel giorno un’altra storia incominciò.
In tutta la terra una storia senza guerra.

Ovviamente, amici, buona domenica a tutti!

LUCIANO COSTA

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