Il Domenicale

Un film, una canzone, un libro e la soggettività del pollo arrosto

È incredibile quanto sia grande l’ignoranza che mi accompagna…  Così, per esempio, capita che ai problemi-drammi-emergenze-fantasie-fake e qualunque altra cosa accade è accaduta o accadrà abbiamo una risposta incollata proprio sulla punta della lingua, ma talmente incollata che non la scolla neppure una spinta… Però, son sicuro che la terra di mezzo in cui sopravvivo al tempo che fugge, non è mai stata così popolosa, vuoi perché è la casacomune, o vuoi perché è di ampiezza così indefinita da renderla essa stessa difficilmente definibile. Nella terra di mezzo esplorata ieri ho trovato di tutto e di più. Per esempio: un film il cui successo strabiliante è stabilito dalla strabiliante banalità di una “femme” colorata di rosa, forse “fatal” o forse solo “banal”, un film che incassa somme vertiginose, che tutti snobbano ma che tutti hanno visto o s’apprestano a vedere; una canzone vecchia e polverosa, cantata da un simpatico istrione giunto cantando alla sua ultima dimora (di sicuro una fetta di cielo affollata da canterini e menestrelli che come lui sognavano mondi migliori), ancora usata per dire “lasciatemi cantare, sono un italiano, un italiano vero”; un libro che non avrebbe smosso un pelo se non per interpretare il disagio di vederlo messo in circolo, un libro che se ne frega del lettore e si bea invece del suo ridere, che diventa irrefrenabile di fronte a affermazioni-ricordi-aneddoti-tagli-ritaglie storie ora romanzate, ora infiorate e fiabesche, sempre artatamente pensate e scritte per compiacere il capo e, soprattutto, sé medesimo; un invito perentorio a lasciar perdere l’effimera intenzione di migliorare le cose ridendo, ammonendo, meditando seriosamente e anche scherzando su quelle più appariscenti (in particolare quelle che provengono dalla politica n ostrana…) per investire invece pensieri su quel che afferma il saggio quando sottolinea come “anche la persona più piccola può cambiare il corso del futuro” e ribadisce che, al più, tutto ciò che dobbiamo decidere ora-adesso-subito è cosa fare col tempo che ci viene dato.

Per quel che mi riguarda, piuttosto che preoccuparmi di cosa fare col tempo che mi è concesso, dovrei lasciar far al tempo quel che più gli aggrada. Però, convinto che anche il più ignorante del villaggio ha diritto di credere che nessuno è tanto vecchio da non poter vivere almeno un altro lunghissimo-interminabile-bellissimo giorno (meglio se fossero tanti), uso il tempo e lo incornicio nel mio (ma spero anche vostro) domenicale affidandogli il compito di portare qui e là pensieri pensati-pazienti-pesati-ruminati-frullati e di nuovo pensati così da essere almeno non banali.

Ragionando sulle quisquiglie desunte dalla visita quotidiana alle terre di mezzo anche di mia pertinenza (un film, un libro, una canzone, un invito a lasciar perdere), mi sono imbattuto in un foglio sparso sul quale avevo annotato il pensiero con cui Bertolt Brecht (insigne drammaturgo oltre che sapiente raccontatore di uomini che usciti da casa per comprare un pesce si erano ritrovatiin guerra) disegnava se stesso e forse anche la massa che gli stava intorno, affermando esplicitamente seppur mantenendo un non so ché di indecifrabile, che “se per tempo entro nel vuoto / dal vuoto ritorno pieno; / quando frequento il nulla / so di nuovo quello che devo; / se io sento, se io amo / è certo che mi logoro: / ma poi, immerso nel freddo / ecco, avvampo di nuovo”. Quel foglio lo avevo accantonato in attesa di lumi che mi aiutassero a decifrarlo. Stamani ho capito che voleva dire non lasciar perdere, sostieni il pensiero, offri il pensiero pensato, lotta e sgomita perché a chiunque sia concesso di esprimere il proprio pensiero…”, sempre con giudizio, con rispetto della verità, con assoluto distacco dagli interessi di bottega

Visto l’andazzo introdotto e favorito dal nuovo corso del tempo politico, c’è poco da stare allegri. Sembra infatti di essere tornati al tempo in cui i mezzibusti televisivi indicati da Sergio Saviane(scrittore, giornalista, polemista, creatore di linguaggio, vero e proprio maestro di onomaturgia, oltre che primo critico televisivo)quali inutili lettori di notizie prestati ai vari telegiornali, giornalisti evanescenti appartenenti a una “galleria di mezzibusti impacciati che non sanno dove mettere le mani e leggono le notizie che la censura gli elargisce col volto più impenetrabile… un museo di busti del Pincio, ben attenti a non dire niente che abbia una parentela col giornalismo vero e perciò coraggioso…”, osavano l’impossibile per non essere definiti servi… C’erano e prosperavano, allora come adesso, varie tipologie di mezzobusto(mezzobusto da velina, mezzobusto fermo posta, mezzobusto resuscitato, mezzobusto in azione, mezzobusto da scaramuccia, mezzobusto da cerimonia, mezzobusto mitragliere, mezzobusto controvento, mezzobusto da borraccia a tracolla, mezzobusto da cataclisma, mezzobusto da disgrazia stradale, mezzobusto da elicottero, mezzobusto da neve farinosa…”), ognuna rispondente alla bisogna dei potenti di turno. C’erano e ci sono ancora adesso “i mezzibusti da allevamento, da allattamento, da riscaldamento, da carrozza, da rintocco, da cupolone, da carta geografica, da inquinamento e da aria libera, di volta in volta invitati a interpretare il presente secondo i desiderata dei “tenutari” del potere. Così ieri. E oggi? Oggi mezzibusto e mezzebusto tengono banco, dicono, ammiccano, stralunano, tremano, fingono sorrisi e poi buttano la notizia dritta in faccia al nessuno che se ne sta davanti al televisore. Tutto da ridere, tutta roba vecchia? Non proprio. Soprattutto perché la storia si ripete e conferma che mezzibusti e mezzebuste non finiscono mai di stupire e di esistere.

Ugualmente, come direbbe Marino Moretti se gli fosse concesso di esistere almeno un attimo, oggi mi sento né felice né triste, come a metà tra le due cose”, più o meno appollaiato su un piedistallo di cristallo posto a presidio delle terre di mezzo. Sono, cioè, laddove “la lingua batte dove il dente duole” (Andrea Camilleri eTullio De Mauro), sapendo che la lingua va dove vuole, ma è sensibile ai suggerimenti della letteratura” (Umberto Eco), incapace però di capire, come suggeriva George Orwell, “che lo scopo principale a cui tende la Neolingua è quello di restringere al massimo la sfera d’azione del pensiero”, incurante sia dell’ammonimento secondo il quale “se scrivendo sei più infelice, non scrivere; se sei infelice lo stesso, fallo... (Antonella Anedda), sia di ciò che Gustave Flaubert invitava a fare, vale a dire non leggete, come fanno i bambini, per divertirvi, o, come gli ambiziosi, per istruirvi; no, leggete per vivere”.

La “Neolingua orwelliana” l’ho vista riprodotta in un libro,chiacchierato ma deludente, intitolato il mondo al contrario”, scritto da Roberto Vannacci, un generale dell’esercito italiano, secondo Natalia Aspesi “un uomo per bene, che è stato in Jugoslavia, Libia, Afghanistan, Iraq, e che forse perché scombussolato da quei luoghi di guerra, gli è venuta voglia di raccontare come sarebbe il suo mondo tutto per bene se lui fosse rimasto indietro di decenni che possono sembrare secoli”. Più curioso e sorpreso dal battage pubblicitario inscenato dai soliti cultori dell’ovvio che interessato a scoprire di quale pasta fosse incartato quel mondo al contrario, ho letto il libro del generale, proditoriamente conquistato grazie all’estro malefico di un pirata della tastiera… E mi son ritrovato in una selva oscura, “ché la diretta via era smarrita, cosciente del fatto d’essere precipitatonella bolgia in cui s’annidano i pensieri più inutili, quelli di un generale a cui le stellette han dato evidentemente alla testa.Leggevo e mi pentivo di saper leggere; ridevo e mi rendevo persuaso che così facendo non capovolgevo la realtà; riconoscevo al generale il diritto di scrivere, non lo si nega a nessuno, ma un po’ meno quello di trasformare i suoi pensieri (secondo me assai poco pensati) in qualcosa utile per comprendere la realtà, giustificare la propria storia, esaltare la propria visione dell’essere e del divenire…

Ciò non toglie, come spiega Edoardo Albinati nel suo “Velo pietoso”, che “il libro è in sé cosa buona, utile”, che “chi possiede e legge libri si appresta a diventare una persona migliore, ecc.ecc.”. Può anche darsi sia così, ma se scorro le classifiche di vendita dubito seriamente che chi legge quella roba si guadagni il diritto a sentirsi moralmente o intellettualmente superiore a chi non lo fa…”. Inconsciamente o coscientemente, il generale mostra quel che in nessuna parata gli sarebbe stato concesso di mostrare: un ego assoluto e incurante di qualunque limite suggerito dal buon senso. Tutto il resto, credetemi, è noia.

Però, “lasciatemi cantare, sono un italiano, un italiano vero”; lasciatemi sognare, sono abitante dell’isola di Utopia, dove il rosa non esiste se non per colorare il mondo che verrà, se verrà;lasciatemi vivere incurante dell’invito a lasciar perdere l’effimera intenzione di migliorare le cose; lasciatemi anche il tempo di gustare “la soggettività del pollo arrosto” (canzone strampalata, ma non troppo, di Samuele Bersani), che è e diventa quella del generale che vede il mondo al contrario, “che senza testa pensa più di prima, la cui coscienza rimane sveglia, pronta “a giudicare tutto quello che passa…”. E’ sempre la soggettività del pollo arrosto, che “non ha memoria del suo passato”, ma sa che fine indegna lui farà, se appena qualcuno proverà a controllare il suo status di generale al contrario… E ancora sarà “la soggettiva del pollo arrosto” o del generale che vede il mondo al contrario, “che senza testa pensa più di prima e convinto che “la sua coscienza rimane sveglia”, giudica tutto quello che passa e così “lo racconta e immagina il suo mondo come un mondo al contrario.

Fine delle vacanze. Domani si torna a pensare non più alla soggettività ma alla sostanza del pollo arrosto.

LUCIANO COSTA

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