Il Domenicale

Una data, due papi, due parole e poi “Monsieur Ouine”…

Il calendario dice che oggi è il 6 agosto, non un giorno qualsiasi. In verità, in quest’oggi non vi è traccia di vittorie altisonanti, di quelle che fanno scendere in piazza il popolo e acquietano le coscienze ondivaghe dei politicanti, neppure di eventi in grado di rasserenare l’animo (lo scoppio della pace in Ucraina e nel mondo, per esempio, questo sì sarebbe un evento da salutare alla grande). Però, in questa domenica 6 agosto, c’è un papa – Francesco – che insieme a un milione e mezzo di giovani dice al mondo che un futuro migliore è possibile se e come ci si rimbocca tutti insieme le maniche e si comincia a raddrizzare quel che ingordigia e progresso hanno piegato-corroso-compromesso e inservibile… e ci sarebbe un altro papa – Paolo VI – che nel quarantacinquesimo anniversario della sua morte manda di nuovo a dire che la civiltà dell’amore è il vero antidoto alla barbarie… Tutti e due i papi, a chi abbia anche solo un briciolo d’attenzione da prestare alle cronache del giorno, ricordano che “futuro migliore” e “civiltà dell’amore” non sono oggetti acquistabili al mercatino delle pulci, ma beni preziosi di cui servirsi se davvero è viva l’intenzione di impedire che qualcuno distrugga ciò che è di tutti, cioè quel “creato” che non smette di stupire e che perciò merita rispetto e carezze…

Lascio ai cronisti-inviati il compito di raccontare quel che Francesco ha mostrato partecipando alla Giornata Mondiale della Gioventù. Tengo invece per me il compito di ricordare Paolo VI. E lo faccio ribadendo che è e resta “un amico vero e sincero”, un prete “mite e umile” che con mitezza e umiltà ha indicato la via da seguire, un papa “pensoso eppure ardimentoso”, un maestro che impreziosiva le lezioni con la testimonianza, profeta e custode della “civiltà dell’amore”, cantore di libertà, cercatore di pace, cittadino del mondo, poeta e narratore di un infinito degno d’essere condiviso, un uomo che semplicemente e assiduamente s’è schierato dalla parte degli ultimi assicurando a ciascuno la sua giusta fetta di Cielo e di felicità. Lo ricordo e propongo di ricordarlo, anche adesso, “mite umile pensoso e sorridente”, aperto alle novità, pronto ad accogliere, fermo nella fede, tenace nella carità, orgoglioso nella speranza…

Oltre il ricordo, ovviamente, c’è dell’altro. Per esempio, come ha scritto l’arcivescovo di Napoli riferendosi all’idea di una legge di riforma dedicata all’autonomia differenziata di cui tanto si parla e sparla, “c’è un’aria strana che si muove nel cielo”. Ed è da troppo tempo, ormai, che quest’aria, “che non si comprende bene se è di vento, e di che vento, o di temporale che minaccia, di cui è certa, però, la direzione in cui essa si muove” ci sovrasta e circonda. Quest’aria “è quella della povera gente, resa ogni giorno più povera da una certa politica che non la considera, se non per la convenienza, magari elettorale”. E’ quella della “gente, resa più distante dalle istituzioni, della gente trascurata anche dalla cultura che, smarrendo la sua vocazione originaria, si volta dall’altra parte e si ubriaca di parole che essa stessa ha consumato, della gente, che non riesce più a sentirsi popolo, perché le antiche bandiere sono ferme e gli inni gloriosi muti, davanti a una falsa idea di nazione che scambia la patria per un campo di battaglia, dove una parte si contrapponga a un’altra. E dove ciascuno è straniero se viene da lontano, da una terra che non li caccia, la propria. E da un’altra, di là dal mare, che non li vuole…”.

Per spiegare e spiegarsi, il prelato usa due termini – “autonomia” e “differenziata” – due parole eleganti, che “prese autonomamente procurano una sensazione più piacevole di quella che pure si prova se lette insieme”. Autonomia! “Che bella questa parola! Cosa c’è in un qualsiasi consorzio umano di meglio che avere garantita l’autonomia. Autonomia si coniuga con libertà. È magnifico essere autonomi, magnifico essere liberi. Poter decidere del proprio futuro e della propria vita attraverso il pieno utilizzo dei propri mezzi è il sogno di tutti… E fin qui potremmo essere quasi felici, se non intervenisse la fatica dell’essere autonomo e il rischio che la libertà applicata in un determinato contesto possa procurare voglia di fare senza gli altri. Ovvero, di non vedere altro interesse che il proprio…”.

Poi, ecco l’altra parola, “differenziata”, altrettanto bella. “Essere differenti, cioè sé stessi diversi dagli altri per legge determinati, è interessante. Fare cose differenti, agire in maniera differente in un’area differenziata, è atto straordinario, che solletica vanità e senso di superiorità. Voglia di far da soli e per sé stessi e con le proprie risorse, senza, soprattutto, dover dar conto agli altri e fare i conti con gli altri, non è vantaggio da buttare, direbbero gli interessati se già non l’hanno pensato”. Ma è davvero questo il destino che ci attende? Non credo. Credo invece che il destino sia quello scritto nella nostra Costituzione, che “prima, durante e dopo, narra dell’eguaglianza autentica fra tutti cittadini”, che dice senza possibilità di fraintendimenti che la sua bellezza “è nella inscindibile unità tra autonomie e solidarietà, tra libertà individuale e azione sociale, tra ricchezza individuale e ricchezza complessiva, tra singoli territori e unità territoriale, tra regioni e nazione, tra comuni e Stato, tra pluralismo e compattezza”, che al  centro mette “la persona, non l’individuo singolo privo di tutto quel corredo umano che fa l’uomo l’essere speciale che è”.

Che sia anche questa la “civiltà dell’amore” proposta da Paolo VI?

Potrebbe essere se e come io e voi fossimo disposti a spendere un soldo per realizzarla. Servirebbe però la capacità di stare ben fermi nelle convinzioni essenziali, vale a dire “prima il bene di tutti poi il resto, prima la capacità di essere credibili nel dire “sì sì” oppure “no no”, prima gli altri che sono il nostro prossimo poi noi… Poi, quel libro, “Monsieur Ouine” (ultimo romanzo pubblicato in vita da Georges Bernanos, uscito inizialmente in Brasile nel 1943, arrivato in Francia solo nel 1946, tradotto in Italia nel 1949 da Carlo Bo ed ora riproposto in veste nuova), visto ieri in libreria e ancora capace, con quel titolo, di imporre una domanda fondamentale: “Chi siamo noi? Affermazione o negazione?”. La domanda, l’avrete inteso, è sospesa nel cognome, che associa affermazione (oui) e negazione (non) e che, almeno per i lettori affezionati di Bernanos, sembra sfidare il precetto evangelico del “sì sì”, “no no”. Così, quel libro notato appena ieri tra altri mille in cerca di acquirenti – Monsieur Ouine, per servirvi -, benché ritenuto dalla critica ostico-complesso-difficile-perpochienonpermolti, è però la dimostrazione che in fondo basta leggere e magari rileggere per dimostrare che nessun libro è troppo difficile, ovviamente se il lettore è abbastanza coraggioso per avventurarsi nella lettura. In ogni caso, se vi capitasse d’incontrare Monsieur Ouine, ditegli che vi piacerebbe sapere dove ha trovato il cognome che lo definisce. Probabilmente vi dirà che si chiama Ouine per caso, che sempre per caso è messo lì a far da barriera tra affermazione e negazione e che invece non a caso determina ciò che egli rappresenta: l’abitante di un paese sconosciuto e misterioso.

Invece, come dice Cesare Pavese in “la luna e i falò” e ricorda oggi Gianfranco Ravasi nel “breviario” domenicale, “un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via”, perché “un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. Ma il problema, adesso, non è il paese narrato, bensì il Paese, mio e vostro, che si vergogna d’essere narrato qual nemico di chi, ignaro ma speranzoso bussa alle sue porte… Intanto, ecco quella dimenticata canzone, opera del complesso “le Orme” e datata 1973, che viene a ricordarmi che “la vita è un cerchio e il cerchio è la vita / che si distrugge per poi costruire, / si aspetta sempre il nostro giorno, / non cambia niente all’infuori del tempo”… Che con forza straordinaria e sempre nuova mi dice che “dove il cielo si nasconde dietro monili di mille stelle, / dietro la polvere d’oro di un altro universo, / due pianeti in armonia, ruotano insieme nel loro regno, / dove ogni cosa non cambia all’infuori del tempo. / Come ampolle di clessidra, la sabbia scorre col suo potere. / Così il destino coinvolge la vita lassù. / Dietro boschi di corallo, dietro sospiri di amanti veri, / due rose gemelle non muoiono insieme. / E quando nasce l’alba sopra il mondo / si sparge intorno un alito di vita, / le foglie color miele ne assorbono il calore. / Un vecchio guarda in alto e fa un sospiro, / dalle fontane sgorga l’acqua e il vino, / le lacrime svaniscono al suono di campane”.

Le campane, stamani, dalle mie parti hanno di nuovo suonato per annunciare la domenica e anche per ricordare Paolo VI, che non smette di essere un “Papa scomodo” e per questo relegato tra mille pensieri che invece dovrebbero ogni giorno essere ricordati.

LUCIANO COSTA

Altri articoli
Il Domenicale

Potrebbero interessarti anche