Il Domenicale

Una fabbrica, il blues, Peter Pan e Capitan Uncino…

In mezzo al ferro-tondino, con una scritta – keep on dreaming – che era l’opposto dell’idea dura e fredda che lo caratterizzava. Sognavo oppur ero desto? Nessun sogno. Piuttosto, ero immerso in un presente che facendosi forte del passato prepara un futuro degno d’essere vissuto e condiviso. Quel keep on dreaming (tradotto significa “continuare a sognare”) rappresentava il bello di una storia italiana, europea, bresciana, bella e tosta. Una storia che raccontava il successo di un gruppo industriale nato dalle braccia infaticabili di Carlotto e Camilla Pasini e poi, via via, fortificato grazie all’impegno di “ragazzi” – Giulia, Giuseppe, Giovanni e Cesare – diventati adulti avendo come esempio niente più che quelle braccia forti e infaticabili dei genitori. Ed è una storia che continua dentro la provincia bresciana, che incarna l’origine stessa del ferro-tondino, da Odolo a Lonato a Nave, ma anche in Italia e in Europa, ovunque con lo stesso spirito, con il solito nome (Feralpi, un titolo che è già un programma) e il medesimo pensiero: garantire sviluppo omogeneo, assicurare lavoro e dignità a tanti, cercare soluzioni che assicurino alla terra di vivere e agli umani di abitarla e goderla… Magari, continuando a sognare cieli nuovi e fabbriche come fossero case. Ieri, immerso nel ferro-tondino prodotto e lavorato da una fabbrica (Presider è il suo nome e Nave, provincia di Brescia, la sua collocazione) rimessa a nuovo da “Feralpi” e già inclusa tra quelle destinate a rendere migliore il paese che la ospita, ho riannodato le fila dei ricordi e delle storie vissute mettendo al centro le persone (non importa quante) che di quelle storie sono state protagoniste. Ognuna di quelle storie racconta fatiche e speranze, porta con sé un pezzo di gloria conquistata sul campo, somma conquiste condivise e sempre orientate al bene comune. Le ho messe in fila quelle storie e mi sono convinto che basterebbe usarle nel caso si volesse togliere al presente quel sentore di odio e incomprensione che lo pervade. In fondo, dicevo a me stesso, se per l’inaugurazione di una fabbrica risuonano parole che il tempo non ha ancora cancellato (per esempio quelle che Adriano Olivetti dedicò ai suoi operai e impiegati nella vigilia di Natale del 1955) allora continuare a sognare è possibile.

Diceva Adriano Olivetti alle sue maestranze: “…è importante adoperarsi per far sì che la potenza e il potere della fabbrica sia rivolto insieme ai fini del vostro benessere, al civile progresso dei luoghi ove siete nati e in cui vivete. Poiché a nessuno di noi deve sfuggire un solo istante che non è possibile creare un’isola di civiltà più elevata e trovarsi a noi tutt’intorno e ignoranza e miseria e disoccupazione. Perciò io credo in una società rinnovata, che esalti e non opprima, che riconosca e non disprezzi, che accetti e non respinga l’ordine umano e divino che risplende nella verità, nell’arte, nella giustizia e sopra ogni altra cosa, nella tolleranza e nell’amore…”, tolleranza per costruire insieme, amore per dare a quel costruire insieme valore di umanesimo vissuto. Però, aggiungeva Olivetti “nello sconsolato mondo moderno, insidiato dal disordinato contrasto di massicci e spesso accecati interessi, corrotto dalla disumana volontà e vanità del potere, dal dominio dell’uomo sull’uomo minacciato di perdere il senso e la luce dei valori dello spirito, il posto dei lavoratori è uno, segnato in modo inequivocabile. Noi crediamo che, sul piano sociale e politico, spetti a voi un compito insostituibile, e di fondamentale importanza. Le classi lavoratrici, più che ogni altro ceto sociale, sono i rappresentanti autentici di un insopprimibile valore, la giustizia, e incarnano questo sentimento con slancio talora drammatico e sempre generoso; d’altro lato gli uomini di cultura, gli esperti di ogni attività scientifica e tecnica, esprimono attraverso la loro tenace ricerca, valori ugualmente universali, nell’ordine della verità e della scienza. Siete voi lavoratori delle fabbriche e dei campi ed ingegneri ed architetti che, dando vita al mondo moderno, al mondo del lavoro dell’uomo e della sua città plasmate nella viva realtà gli ideali che ognuno porta nel cuore: armonia, ordine, bellezza, pace…”. Era il 1955, l’Italia e il mondo ricostruivano città e paesi distrutti dalla guerra. Adesso, anno 2023, l’Italia e il mondo sono impegnati a mettere accanto ai paesi e alle città ricostruiti sentieri autentici di pace, di bellezza, di ordine, di armonia… Sentieri degni d’essere percorsi perché lì e non in chissà quali inferi regnano verità e giustizia.

Ma, davvero esistono ancora questi sentieri? Non lo so, però sono propenso a crederlo. E non m’importa che qualcuno si diletti ancora nel cantare alla luna il “blues in memoria”; m’importa invece sapere che tanti sognatori non smettono di piegare e di accomodare il ferro-tondino fino a renderlo capace di sorreggere e rendere eterni gli imponenti ponti che conducono al mondo migliore (e migliore perché imbevuto di pace, rispetto e fratellanza). Wystan Hugh Auden, poeta inglese, nel suo “blues in memoria” scritto nel 1936, dice: “Fermate tutti gli orologi, isolate il telefono, / fate tacere il cane con un osso succulento, / chiudete i pianoforte, e tra un rullio smorzato / portate fuori il feretro, si accostino i dolenti. / Incrocino aeroplani lamentosi lassù / e scrivano sul cielo il messaggio “Lui È Morto”, / allacciate nastri di crespo al collo bianco dei piccioni, /
i vigili si mettano guanti di tela nera. / Lui era il mio Nord, il mio Sud, il mio Est ed Ovest, / la mia settimana di lavoro e il mio riposo la domenica, / il mio mezzodì, la mezzanotte, la mia lingua, il mio canto; / pensavo che l’amore fosse eterno: e avevo torto. / Non servon più le stelle: spegnetele anche tutte; / imballate la luna, smontate pure il sole; / svuotatemi l’oceano e sradicate il bosco; / perché ormai più nulla può giovare”. No, non scriverò nel cielo che “Lui è morto”, scriverò invece che “vive” e che invita a non spegnere le stelle e neppure a imballare la luna, che raccomanda di continuare a sognare…

Io, di sicuro, sto sognando… Immagino infatti “le notti bianche” di Fedor Dostoevskij, quelle che sembrano svanire non appena l’orologio compie per intero il suo quotidiano girotondo, ma che insistono nel mostrarsi qual notti meravigliose…  Scrive lo scrittore cittadino di una Russia ancora lontana dalle frenesie di potere destinate ad opprimerla: “Era una notte meravigliosa, una notte come forse e ne possono essere soltanto quando siamo giovani, amabile lettore. Il cielo era così pieno di stelle, così luminoso che, gettandovi uno sguardo, senza volerlo si era costretti a domandare a se stessi: è mai possibile che sotto un cielo simile possa vivere ogni sorta di gente collerica e capricciosa?”.  Appunto: è possibile che sotto un simile cielo alberghino indisturbati uomini e donne collerici e capricciosi? Purtroppo, è possibile.

C’è infatti, e resiste ancora libero e ridente, quel Peter Pan che Capitan Uncino cerca in ogni modo di afferrare e distruggere… “Venga avanti – dice il perfido – chi mi dà notizie di Peter Pan… Lo voglio vivo però. E quando l’acchiappo non so che cosa gli farò… Si prende gioco di me e fa il gradasso perché quei branchi di mocciosi lo stanno ad ascoltare, perché lo credono un eroe. Ma è solo un qualunquista, un esibizionista… Però, di tutti i miei nemici è il più pericoloso, è il primo della lista, l’unico che durante un duello ha preso la mia mano per darla in pasto a quel
dannato coccodrillo… Ma non la passa liscia, gliela farò pagare con le mie stesse mani. Anzi, col mio uncino lo dovrò scannare… Eccolo in vista, è lui con tutta la banda, meglio che questa volta si arrenda, non voglio prigionieri, mi basta solo un ostaggio… Avanti all’arrembaggio, avanti all’arrembaggio… Veri pirati noi siam, contro il sistema lottiamo. Ci esercitiamo a scuola a far la faccia dura per fare più paura. Ma cosa c’è di male? Ma cosa c’è di strano? Facciamo un gran casino… lavoriamo per Capitan Uncino, il professore della rivoluzione, della pirateria la teoria, il faro illuminante… Ma lo capite o no che per scuotere la gente non bastano i discorsi, ci vogliono le bombe, serve una ciurma disposta a combattere sul fronte… E chi si arruolerà, un bel tatuaggio avrà. Ma da quel trampolino, io a chi non vuol firmare, lo sbatto giù nel mare. Battete la fiacca? Io mi sacrifico per voi… E’ questo il vostro ringraziamento?”.

Questo scherzo poetico lo ha scritto e messo in musica Edoardo Bennato, un sognatore degno di appartenere alla schiera dei sognanti domenicali. Ma è solo uno scherzo poetico o è anche cronaca di giorni in cui novelli Peter Pan sono costretti a opporsi a nuovi e feroci Capitan Uncino? Ripenso a quel keep on dreaming scritto tra cataste di ferro-tondino allineate nella fabbrica di Nave e nello spirito del poeta “m’illumino d’immenso”, almeno del tanto necessario per indurmi a credere che nonostante nubi, temporali e umori cattivi il sole tornerà a sorgere; e apparirà ancor più bello e ridente se troverà ad accoglierlo gente che dentro e fuori la fabbrica (che si chiami Feralpi o chissà come poco importa) vuole davvero continuare a sognare.

LUCIANO COSTA

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