Una giornata per ringraziare

Se in 364 giorni dell’anno la parola grazie è rimasta tra i pensieri sospesi, nel giorno numero 365 è il caso di metterla in bella evidenza. L’operazione riguarda tutti: chi è più in vista e chi naviga nel sommerso, chi briga e chi disfa, chi piange e chi ride, chi chiede e chi dà, chi se ne frega e chi invece si preoccupa, chi scrive e chi legge, chi la domenica la passa rincorrendo profumi-balocchi-regali-sogni-abbuffate e qualunque effimero svolazzo alla moda e chi, invece, dove è difficile e sempre incerto coniugare l’essere e il divenire. Per esempio, nelle corsie di ospedali, ricoveri, dormitori, mense, carceri, centri di improvvisata e provvida accoglienza; ma anche sotto i ponti, negli anfratti dei palazzi, nelle carrozze ferroviarie stazionanti lungo binari dimenticati, sulle panchine di giardini e parchi, sui marciapiedi, in qualche sgangherata automobile elevata a rango di albergo e ricovero o in qualunque altro posto appena fruibile… L’operazione del dire grazie è mia, ma anche tua, loro, nostra e vostra e, soprattutto, è di tale importanza da non poter essere rinviata. Ringraziare, infatti, è mettere un sorriso dove c’è il pianto e forza dove domina la paura; è prendere atto che insieme è più facile vincere le sfide e dare inizio a tempi degni d’essere vissuti.

Purtroppo, tra i reperti mandati in fretta al macero c’è quella “Giornata del Ringraziamento” (momento di festa in cui, soprattutto gli uomini e le donne addetti alla coltivazione della terra – contadini, agricoltori, coltivatori diretti -, ma anche semplici artigiani, costruttori di case, lavoratori abituati alla fatica ma capaci di vedere squarci di sereno, innalzavano gli occhi al Cielo per ringraziare Dio dei doni ricevuti in abbondanza) che avrebbe meritato e meriterebbe solide attenzioni. Certo, è ancora tradizione riservare una domenica di novembre (solitamente quella più vicino a san Martino, patrono degli ultimi e di tutti coloro che quel giorno dovevano far fagotto per andare a cercare casa e lavoro altrove) al “Ringraziamento”; e bello è fare festa, magari anche celebrare una Messa portando all’altare i frutti della terra, benedire uomini e macchine dell’agricoltura, sedersi a tavola insieme… Però, che senso ha se tutto finisce senza lasciare il segno di solidarietà condivise, di una ricerca dello stare bene insieme e non ciascuno a suo modo, di un tempo rispettoso degli altri, chiunque essi siano e quale sia la loro provenienza, della natura, del creato…

Viviamo il tempo delle certezze, vere o presunte poco importa. In altre parole: siamo tutti convinti che quel che facciamo è l’assoluto, il meglio possibile immaginabile, l’unico degno d’essere accettato; al tempo stesso siamo così pieni del nostro io che ben difficilmente guardiamo agli altri, anche solo allo scopo di ringraziarli perché esistono, ci sono vicini, compagni di viaggio, amici veri. E il tarlo popolare che chiede capacità di mettere in dubbio le proprie certezze e il proprio “star bene da soli”, il dilemma cartesiano sull’esistenza, il dualismo irrisolto tra essere e avere, il doveroso rispetto dovuto alle altrui opinioni e gli altrui sforzi per accettarci e condividere con noi questa o quell’altra cosa, la dovuta tolleranza verso pensieri non nostri, che fine hanno fatto?

“Fatti gli affari tuoi” è una delle risposte più probabili a qualsiasi tentativo di richiamo a comportamenti anche soltanto civili; “chi se ne frega” un modo come un altro per concludere qualsiasi argomentazione; “questione che non ti riguarda” la chiusura di qualsiasi possibilità di dialogo. Così avviene nel vissuto quotidiano, nello sport come nella finanza, nel sociale come nella politica, nello spettacolo come in discoteca, in televisione come alla radio, sui giornali come sui muri di città e paesi, sui cellulari come sul web. Basta niente per adirarsi e prendere cappello; servono settimane, mesi, anche anni, per recedere dall’ira e chiedere scusa; resta impraticabile la corsia della “gratitudine”. Invece, anche nel bel mezzo della frenetica corsa al successo e alla ricchezza che tutto vuole e ad ogni costo, non sarebbe disdicevole fermarsi, riflettere e, una volta tanto, sussurrare alle persone che ci stanno intorno, con maniere gentili, un grazie che le ricompensi del tanto, ma anche del poco o niente, messo a nostra disposizione e che liberi noi dalla presunzione di essere unici e così potenti da poter fare a meno del resto del mondo.

Se appena lo vogliamo, anche adesso ci è offerta la possibilità di dire quel grazie forse troppo a lungo lasciato a macerare nel personale dimenticatoio. Il calendario, infatti, assegna a questa domenica, il valore di “Giornata del Ringraziamento”. La celebrano normalmente in tanti, solennemente in pochi, distrattamente in gran numero. Però gli americani, per i quali è considerato tradimento disertarla, la esaltano e, qui da noi, quel che resta della gloriosa Coltivatori Diretti, che la giornata l’ha invocata e ottenuta dalla Chiesa a cavallo degli anni cinquanta, si ostina a proporla come antidoto al materialismo dominante.  E lo farà anche oggi a Sassari, città prescelta per rappresentare l’intero Paese, dove tutti sono invitati per celebrare insieme la 71ma Giornata del Ringraziamento. Qualcuno dirà che è solo una questione religiosa. Forse è vero. Però, oltre l’invito a ringraziare Dio “autore di ogni dono e di ogni bene” che la Chiesa rivolge ai credenti, c’è e resta il dovere di ringraziare chi, in cielo o in terra decidetelo voi, ha fatto il possibile per assicurare cibo, benessere, salute, speranza e squarci di serenità a chiunque, anche all’ultimo dei viandanti.

“La celebrazione della Giornata del Ringraziamento – hanno scritto i vescovi nell’annuale messaggio dedicato alla ricorrenza – è un necessario richiamo al dovere di rispettare, custodire, coltivare, lavorare la terra, che è madre generosa di nutrimento e di ricchezza per tutti gli uomini. Il messaggio dei vescovi italiani si concentra in particolare modo sul “dono degli animali” che la Sacra Scrittura spesso presenta come simboli viventi, veri “strumenti della Sapienza”.  I vescovi evidenziano poi che “la prossimità agli animali, che nella tradizione della civiltà agricola ha portato a sentirli e trattarli quasi come partecipi della vita familiare, nella modernità è stata abbandonata”, sicché “queste creature” sono state ridotte “ad oggetti di mero consumo”. Tutta colpa della civiltà urbana, che ha favorito eccessi opposti e che “ha prestato attenzione per gli animali da compagnia talvolta superiore a quella per gli esseri umani”. Tuttavia, resta evidente come “a volte l’atteggiamento umano sia predatorio nei confronti degli animali come verso le persone”. Per riequilibrare il rapporto tra umani e animali serve buon senso e, magari, anche “un approccio consapevole all’ecologia integrale”, necessaria per “valorizzare un orizzonte equilibrato” e per superare “la riduzione moderna del vivente a oggetto di consumo…”. I vescovi avvertono poi che nei confronti degli animali non si può avere “un rapporto puramente strumentale” o semplicemente utilitaristico o, peggio, di passatempo quando non di ricerca di affetti venuti meno o ritenuti inadeguati… Dunque, persone e animali possono certo convivere, ma con sapienziale distinzione dei ruoli.

Se però oggi siete disposti a ringraziare, fatelo per voi ma anche per loro, gli animali, che senza saperlo ma felicemente abbaiano, miagolano, muggiscono, cinguettano per comunicare la gioia di esistere. E’ questa la Giornata del Ringraziamento. In un tempo nel quale tutto sembra ruotare attorno al valore delle monete piuttosto che a quello della solidarietà, quando gli ideali di fraternità universale e di mutuo soccorso sembrano essere stati sospesi e sostituiti con altri ben più appaganti ed immediati, fermarsi per ringraziare è arduo ed imbarazzante. Per qualcuno potrebbe significare debolezza, per altri equivarrebbe ad ammettere di non poter affrontare da soli “l’insostenibile leggerezza dell’essere” che accompagna il quotidiano. Ma se è vero che per ringraziare serve coraggio ben superiore a quello solitamente speso per non farlo, qui e adesso sarebbe lodevole smetterla di essere soltanto interpreti dell’io sono io. Soprattutto perché nessuno vince, perde o si salva da solo.

LUCIANO COSTA

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