Sicuramente è un paradosso o forse un’esagerazione, magari un evidente azzardo, ma è di quelli che difficilmente, vuoi perché di genere urticante, vuoi perché a proporlo è quel Francesco che fa il Papa, possono passare inosservati. In due righe messe tra le tante che formano “il vangelo del sorriso”, questo paradosso dice a chiunque che “stranamente, non abbiamo mai avuto più informazioni di adesso, ma continuiamo a non sapere cosa succede”. Matteo Grandi (in “La verità non ci piace abbastanza”) scrive che “la dieta informativa degli italiani è caratterizzata da uno spiccato fenomeno di cross-medialità (credo stia lì a significare un prodotto, una storia, un contenuto o un servizio capace di viaggiare tra più piattaforme distributive e di incarnarsi alla fine su media differenti, secondo le regole della convergenza) che oramai riguarda oltre i tre quarti della popolazione”.
La rete all’interno della quale si dipana il flusso delle informazioni e attraverso la quale prendono forma le opinioni, spiega il curioso giornalista, è formata da televisione, giornali, testate online, siti web, social network e qualsivoglia altro mezzo di comunicazione. “Ma – aggiunge – se in questo dedalo vengono meno le basi della credibilità e dell’autorevolezza, riconoscere la verità rischia di diventare una missione impossibile”. Già Luigi Pirandello, in tempi certo non contaminati da cell.web.soc.tel.rad usati e messi in circolo da appositi venditori di fumo, sosteneva la “non esistenza” di un’unica verità, “perché le verità sono tante quanti sono coloro che credono di possederle”. Ragion per cui “il vero e il falso” abitano sullo stesso pianerottolo e si sfidano continuamente a singolar tenzone. Eppure, volendo, “esiste anche l’incertezza”, che basterebbe ammetterla come distanziamento tra le personali convinzioni e il vissuto quotidiano per capire che “avvicinarsi alla verità implica avere piena consapevolezza di tutte le componenti in gioco, accettare le zone grigie e rifuggire dagli assolutismi”.
Ed è stata proprio l’informazione che da mesi-giorni-anni accompagna la peregrinatio dei migranti in cerca di fortuna in terre non loro, a suggerirmi pensieri e ripensamenti sul disturbo che pochi possono arrecare a tanti. Mille o cinquantamila provenienti dal mare, o duemila che arrivano camminando per valli, deserti e foreste, siamo sicuri che siano per davvero ingestibili, un pericolo per l’umanità, un danno irreversibile per città-paesi-nazioni? Ecco, proprio il raffronto tra chi stabilmente risiede (miliardi di essere umani distribuiti sulla faccia della terra) e chi cerca spazio per risiedere (qualche milione di disperati) tra cuore e cervello mi ha inculcato un tarlo che non riesco a rimuovere e neppure a spiegare.
Senza dimenticare i sommovimenti in atto sia in quel che comunemente intendiamo per Mare Nostrum, sia in terre desolate, sconosciute e lontane, vedo ciò che in questi giorni mi è vicino, che sta accadendo al confine tra la Polonia (Paese dell’Europa Unita) e la Bielorussia (Paese a corto di democrazia, rimasuglio dell’impero sovietico) e mi chiedo: come è possibile che la massa si lasci spaventare da quattro poveri cristi che cercano un fazzoletto di terra in cui abitare e sognare? Sul confine che segna la fine del continente Europa e l’inizio delle terre di Russia, la democratica Polonia e la non ancora democratica Bielorussia giocano una partita che se non assomiglia ancora a una guerra è di sicuro la sua anticamera. Loro, duemila in tutto forse qualcuno in più, stanno oltre il filo spinato messo lì dai polacchi per rafforzare il loro confine; noi, 450milioni di europei, stiamo di qua, nei confini stabiliti. Loro sono migranti in cerca di fortuna; noi siamo i custodi della civiltà e dell’umanesimo.
Non è storia di chissà quando, ma di ieri e si svolge al confine orientale dell’Europa con il resto del mondo. “Al di là del filo spinato –racconta un Mattia Feltri che a mala pena nasconde commozione e rabbia – ci sono circa duemila persone, ci sono genitori, vecchi, ragazzi, bambini; arrivano dalla Siria, dall’Iraq, dall’Afghanistan…”. Mi hanno spiegato che si sono trovati in quel Paese che si chiama Bielorussia perché qualcuno gli ha fatto credere che la via per raggiungere l’Europa sognata era quella e solo quella, ma anche che sono stati appositamente fatti arrivare per poi essere utilizzati come un’arma utile a destabilizzare la vecchia Europa. Se ho ben capito, a questi migranti viene detto che la strada che porta in Europa è quella che loro vedono oltre la barriera di filo spinato: basta abbatterla ed ecco che l’Europa è già conquistata. Invece, dietro al filo spinato ci sono le file di soldati armati e pronti a respingere ogni tentativo di abuso. Ai migranti non resta che cercare di sopravvivere in attesa di qualcosa che potrebbe accadere (se e come l’Europa dimostrasse di essere quel condensato di civiltà che si suppone le appartenga) o che non accadrà (perché quell’Europa più vicina è sorda e vuole costruire muri piuttosto che ponti e perché il Paese che ha aperto i confini lo ha fatto solo per interesse e per un fine che ha tutti i presupposti di un atto di aperta ostilità e di deplorevole ricatto).
In tanto trambusto, duemila disperati sopravvivono soltanto grazie alla generosità dei contadini polacchi che vivono nei villaggi frontiera. “Ecco – suggerisce il notista -, immaginate quei villaggi quando è notte. Gli abitanti lasciano le luci di casa accese per illuminare la strada agli spalloni che passano di giardino in giardino, raccolgono il tesoro posato dai contadini al cancello: patate, pane, cavolo, zucche, coperte, scarpe, ne riempiono gli zaini e vanno al filo spinato per dare soccorso a quei duemila: duemila in attesa sulla soglia di un continente abitato da 450 milioni di persone… Bisogna impedire che questi disperati muoiano mentre i leader europei litigano…”. Non è questione di moralità in politica, ma di umanesimo. “Ma se fossi là vorrei essere un contadino e non un soldato, perché non è nemmeno una questione di moralità, è qualcosa di precedente, è il riconoscimento dell’uomo da parte dell’uomo che in Europa fu stabilito persino con entusiastico stupore secoli fa, e dunque l’umanità non cessa di essere tale fuori dalla nostra tribù”. Purtroppo, “abbiano tradito questa idea mille volte: per motivi di razza, di lotta di classe, di fanatismo nazionale e sempre siamo precipitati nel disastro…”. A ricordarcelo sono i contadini polacchi (di certo assai più fratelli di Karol Wojtyla, papa Giovanni Paolo II, che di qualche spregiudicato caporione).
Giacomo Canobbio, eminente teologo, scrive in una recente poderosa relazione (da meditare e masticare fino a renderla commestibile anche a chi non è sapiente ma solo ignorante) che “se gli avvenimenti storici non corrispondono a ciò che si pensa dovrebbe essere la Provvidenza, necessariamente si deve concludere che questa non è all’opera, poiché se lo fosse quell’avvenimento non dovrebbe verificarsi”. Che la Provvidenza non abbia notato quel che accade al confine tra Polonia e Bielorussia è, anche per chi è tiepido nella fede, mi pare assai improbabile. Ma, allora, chi è questa Provvidenza invocata e sempre attesa? “Essa – almeno secondo quella suor Lucia che è recentemente stata proclamata Beata – è un sospiro che diventa respiro e poi soffio d’anima così potente da non lasciare nessuno indifferente”. Insomma, qualcosa che è possibile anche quando tutto sembra impossibile.
Allora ho sognato una città capace di mettere in circolo un progetto che mira a creare nuovi legami, sinergie e progettualità per rafforzare il senso di comunità e costruire insieme un nuovo modello di convivenza sociale. Poi ho scoperto che una città siffatta è allo studio e che è possibile nella misura in cui sarà in grado di incrociare i bisogni della comunità con le disponibilità di risorse dei singoli cittadini o/e delle realtà del territorio. Il nome dato a questo progetto di città dell’uomo è un acronimo che racchiude tutti gli elementi che servono per darle vita e futuro: Share (condividere), help (aiutare), advice (consigliare), empower (dare forza), support (sostenere). Prendete le iniziali e otterrete Shaps, un luogo virtuale che permette la circolazione delle idee e delle risorse a favore soprattutto delle persone ai margini, in condizione di solitudine e di povertà, migranti in cerca di fortuna e di terre da abitare e coltivare. Le parole chiave che sostengono questo progetto in corso di elaborazione a Como, citta di lago e montagna, sono partecipazione, inclusione e sviluppo. Proprio quelle che oggi servirebbero a quei duemila migranti costretti a vivere da sbandati e sfrattati dal resto del mondo al confine tra Polonia e Bielorussia (porzione minima della massa di sbandati e di sfrattati che esiste in diverse parti del mondo abitato) di diventare, senza causare danni, parte dei 450 milioni di cittadini dell’Europa…
Per farlo bisogna però sconfiggere “l’epidemia dell’ignoranza”: quella che dispone di mille e mille informazioni, ma che continua a non sapere che cosa succede.
LUCIANO COSTA