Il Domenicale

Uno per dire no alla violenza, l’altro (aggiunto) per ricordare…

Secondo Lietta, lettrice attenta, tra le pieghe dell’ultimo, forse penultimo o chissà quale altro domenicale, c’era la sottile convinzione che il sensazionalismo cade addosso a chi lo cerca e colpisce in prevalenze le donne perché, dice, è risaputo che essendo deboli per natura e a causa di una perdurante e orba classificazione, loro, le donne, usano il bello e piacevole di cui dispongono per obbligare il mondo maschile a prenderle in considerazione, possibilmente senza angustiarle. Di norma, dovrebbe essere così. E spesso lo è. Molto più spesso, purtroppo, la norma è bellamente superata e infangata. Allora la donna diventa soggetto di insensata violenza e, di conseguenza, oggetto di cronache che vagando nel sensazionalismo, lei e la sua amarissima storia le sbattono in copertina, alla mercé dei curiosi, dei fanatici e degli spregiudicati facitori di giornali e programmatori televisivi. Se ben ricordo, questo, quello o quell’altro “domenicale”, senza sotto e senza sopra, evidenziando i pericoli derivanti dal troppo esporsi e dal troppo poco riguardarsi, metteva in guardia sugli abusi d’immagine e auspicava ragionevolezza da usar al posto della sbracata immediatezza. Quel divagare voleva anche aprire le porte a riflessioni sulla condizione femminile e sulle violenze che il mondo femminile è costretto a subire, proprio dentro e in concomitanza con la giornata (celebrata ieri con qualche enfasi inopportuna e molti distinguo insopportabili) per l’eliminazione della violenza contro le donne.

Una riflessione coraggiosa e utile sulla tremendissima questione legata alla violenza sulle donne me l’ha suggerita Angela proponendomi di andare a conoscere Sara (un nome che ne nasconde un altro e poi un altro ancora), donna di successo che al successo, dopo aver conosciuto di quale violenza era portatore, improvvisamente, ha sostituito l’impegno non occasionale a favore di gente disperata, malconcia, bisognosa di tutto, soprattutto di qualcuno disposto a condividere la sua fame e a piangere le sue stesse lacrime. Conosco quella storia e anche i risvolti che la compongono. Dice che un successo cercato sacrificando l’essenza stessa dell’essere donna non basta a regalare felicità; che nessuno, uomo o donna senza distinzione, vive per la sua bellezza o per l’uso spregiudicato che ne fa; che niente giustifica la fuga dalle responsabilità; che nessuna violenza può piegare la volontà e cancellare l’intelligenza di una donna; che tutto, invece, diventa straordinariamente appagante se fatto con il cuore spoglio di vanità, con mani libere da ogni interesse personale, senza rancore e con gli occhi fissi in quelli di chi soffre e spera un posto dove trovare consolazione.

Mi chiedo e vi chiedo: di quante Sara abbiamo bisogno per passare dalla celebrazione di una giornata per l’eliminazione della violenza contro le donne alla celebrazione di una normale giornata in cui donne e uomini si amano, si rispettano e si cercano con pari dignità e pari opportunità? dii quante storie belle abbiamo bisogno per non dover più leggere che nel mondo ogni due tre quattro cinque minuti una donna – ragazzina o adulta non fa differenza – subisce violenza, cioè viene offesa nella sua dignità (il che vuol dire che lei è considerata alla stregua di una bambola che si gonfia e si sgonfia a comando)?

Ieri mattina, le ragazze e i ragazzi di una scuola superiore, con l’aiuto di una guida esperta di società e di storie di vita, per due ore hanno ragionato e discusso prima sul che cosa significa violenza e poi sulla violenza tradotta in gesti, parole, azioni a danno del mondo al femminile. Tra tante voci modulate sulle opinioni desunte dalle cronache offerte in questi giorni terribili dai mezzi della comunicazione di massa, in prevalenza orientate a considerare la violenza sulle donne quasi soltanto di tipo sessuale, una ha affermato che la violenza non è né femminile né maschile, ma semplicemente un atto ostile nei confronti di qualcuno. “Chi fa un atto ostile – ha detto la ragazzina -, poi se l’aspetta, perché così dice il proverbio e così spera anche il più mansueto degli umani”.

Da quel punto in avanti, mi hanno raccontato i protagonisti a cui era affidato il dibattito-confronto, la discussione non s’è più focalizzata sulla violenza che offende e deturpa il mondo femminile, ma sul modo in cui il mondo femminile può vendicarsi del torto subito. A tempo scaduto, una ragazzina ha chiesto all’esperto: “Ma se la violenza non ha genere, nel senso che è di una e anche dell’altra parte, che senso ha celebrare una giornata per l’eliminazione della violenza contro le donne? Non era forse il caso di proporre una giornata per l’eliminazione della violenza, punto e basta?”. Se è vero, come ha scritto padre Bartolomeo Sorge tanto tempo fa, che “la crisi di oggi è dovuta all’affievolimento contemporaneo del senso della dignità della persona e dello spirito di solidarietà responsabile dei cittadini, causato soprattutto dal diffondersi della cultura individualistica e libertaria”, di giornate contro la violenza, sulle donne o su chi altro decidetelo da soli, ne serviranno, purtroppo, ancora tante.

Oggi, domenica che segue la giornata dedicata a dire no alla violenza sulle donne, lasciatemi scrivere, sull’onda del pensiero annunciato dal saggio, che le donne, se non ci fossero, bisognerebbe inventarle! Lasciatemi però anche aggiungere che, per fortuna, già esistono e, quindi, non richiedono al Creatore ulteriori sforzi inventivi. Sono maggioranza e, almeno in teoria, potrebbero facilmente imporre il loro dominio. E forse, in qualche modo e mondo, lo fanno anche, ma non si vede e neppure è riconosciuto. Così, per atavica concezione, loro continuano a essere considerate “sesso debole” e i maschi il classico ma ormai desueto “sesso forte”. In base a questa concezione, l’uomo va alla guerra e la donna resta ad attenderlo. Siffatto modo di procedere, ai tempi in cui Berta filava (in qualche parte dell’italico suolo succede ancora, purtroppo o meno male dipende dalle usanze e dall’evoluzione culturale) era normale; adesso è inconcepibile, sebbene non del tutto cancellato.

Oggi vale, o dovrebbe valere, il principio della parità fondato sul rispetto massimo e inviolabile. In teoria è la cosa più semplice e normale che si possa immaginare; in pratica è talmente vaga l’idea di mettere uomo e donna sullo stesso piano, che per stabilire un minimo d’equità s’è dovuto chiedere al popolo, appena ieri, di scendere in piazza per dire no alla violenza sulle donne, e l’altro ieri per dire sì alla Legge che inventava la formula delle “quote rosa” obbligatorie, così da rendere visibile la presenza femminile, prima nella politica e poi ovunque esistessero posti di comando e rappresentanze da occupare.

Ricordo che quando la notizia dell’obbligatorietà delle “quote rosa” arrivò nel convento delle mie amiche suore, la più anziana disse che, nonostante tutto il daffare messo in scena dai politicanti e dai  ricercatori-cantori delle parità, il Paradiso restava di tutti e per tutti; subito dopo, la più giovane ribadì che il rosa era un bel colore; più in là, l’addetta alla cucina, con un’equazione degna del miglior pensiero matematico, ricordò che “per fare una buona minestra ci vogliono patate, carote e erbe, ma anche fagioli, sedano, prezzemolo, brodo e riso”. La morale della favola è presto detta: se donne e uomini comminassero tutti insieme appassionatamente e ragionevolmente, avremo bandito per sempre dal nostro modo di vivere ogni condizione di violenza.

 

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Chiuso l’odierno “domenicale”, mi prendo licenza di aprirne un altro, brevissimo, per ricordare che cinque anni fa se ne è andato, di sicuro in Paradiso, don Antonio Fappani, nato nella Bassa Bresciana, prete-scrittore-storico che papa Paolo VI, bresciano anche lui, nel bel mezzo di aspre e pretestuose polemiche, chiamava a Roma per dirgli “grazie per quel che hai scritto, continua a scrivere rendendo omaggio alla Verità che rende liberi”.

Cinque anni fa: sembra ieri, invece è già un’eternità. Infatti “i giovani non sanno quello che i vecchi hanno già dimenticato” e la memoria per coloro che se ne sono andati, soprattutto se non appartenenti ai mondi dell’effimero delle canzonette della tv dello sport del cinema della letteratura-spazzatura (quella non-spazzatura, cioè insieme di pensieri pensati e di racconti degni d’essere conosciuti, è appollaiata su scaffali lunghi più di mille miglia, che sistematicamente restano inesplorati), delle tragedie (soprattutto se destinate alla prima pagina, usate per commuovere stupire imbarazzare e, di conseguenza, dato che è proprio nella lacrima furtiva e banalmente amorevole che si cela il segreto per aumentare l’audience, pretesto per confermare che i cattivi esistono. ma per fortuna non dalla parte dove abitiamo noi), quella memoria amorevole e impregnata di passione che diventa compassione-partecipazione-condivisione, affievolisce fino a scomparire.

Cinque anni fa: appena ieri ma già un tempo così lontano da far passare inosservato e incelebrato l’anniversario della morte di quel don Antonio Fappani (prete di Dio, monsignore, scrittore enciclopedico, viandante di strada (da percorrere sempre e solo a piedi o in bicicletta), che dietro di sé e dei suoi novantacinque anni di esistenza ha lasciato una scia di oltre cinquecento libri scritti e pubblicati, mille e mille pagine di giornali arricchite col suo pensiero tradotto in commenti e fondi che letti oggi sembrano raffigurazioni di ciò che siamo e siamo diventati: sordi che non odono le parole pensate, ciechi che non vedono lo scorrere dell’umanità verso il baratro, sciocchi che alle ragioni delle politica hanno sostituito quelle della propria avidità e vanità, del proprio interesse e dell’immancabile proprio perbenismo che, a seconda delle convenienze, tutto aggiusta e accomoda.

Don Antonio: un intellettuale vero, che ha dato tanto a Brescia e provincia e altrettanto al nostro Paese, che non cantava canzonette ma che scriveva libri e articoli per comunicare cose importanti, però tradotte in parole destinate ad arrivare a tutti, cioè ai primi e agli ultimi, come raramente accade.

Ho condiviso con don Antonio anni di giornalismo appassionato e capace di sollecitare pensieri riflessioni curiosità con cui condire il quotidiano e così raccontarlo ai lettori. Sono stati anni tutti contrassegnati da pazienza e libertà: la pazienza che ai giovani redattori consente di procedere sapendo che il direttore (e don Antonio era un direttore vero) sovrintende e smussa eventuali spigoli scorbutici; la libertà che consente di scrivere e raccontare quel che cuore mente e pensiero suggeriscono, purché avvolti nella verità che rende liberi. Così oggi, 26 novembre 2023, quinto anniversario della sua morte, gli dedico questo secondo e brevissimo “domenicale”, omaggio del fu giovane redattore al suo vecchio direttore.

 

LUCIANO COSTA

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