Non so voi, ma io sottoscritto, in quel guazzabuglio di bugie interessi e rock&roll inscenato dentro fuori e a margine di un evento calcistico elevato a rango di panacea di tutti i mali italioti e non italioti (la Coppa Italia, giocata a Roma, lustrata prima e durante; sciupata verso la conclusione; frustrata e orbata di senso alla fine e dopo), io e non so chi altro, ho visto e letto chi siamo diventati: un popolo che si arrovella il cervello non attorno al reale di cui è impregnato il mondo, ma dentro l’effimero che del mondo è cantore imbonitore ammagliatore e usurpatore. In quel guazzabuglio c’era la partita e c’erano gli interessi che la partita rendevano prelibata, almeno per chi l’avrebbe vinta; accanto alla partita c’erano calciatori al soldo (giovanissimi, giovani, giovanotti, mezz’età o età di mezzo, comunque uomini….) in cerca di successo, allenatori prezzolati e pagati per far giocare e vincere, ma anche per essere paracadute in caso di eventuali cadute di forma e di stile, tutti insieme attori protagonisti dei tanti (troppi) fatti e misfatti di cui è circondato il mondo del calcio (o dello sport in generale, se preferite); fuori e dentro la partita c’erano gli occhi di mille e mille telecamere, ovviamente manovrati da mille e mille cervelli istruiti alla bisogna, ai quali certo interessavano le gesta e i gol eventualmente messi a segno, ma soprattutto gli eventuali possibili risvolti di una commedia che da un lato sarebbe stata strabiliante e dall’altro orripilante. Così è stato. Poi, quando la scena s’apprestava ai saluti finali, con inchini e baciamano in gran quantità, l’inatteso ma da molti auspicato immaginato e atteso imprevisto, per altro già previsto: un signore allenatore titolato e ben pagato, che benché pronto per essere incoronato vincitore della singolar tenzone, perde le staffe, s’arrabbia, s’infuria e a perdifiato ingiuria senza ritegno ma con singolare impegno; attorno a lui, allenatore di grido e successo, le grida del popolo tifoso; sopra di lui l’occhio di mille telecamere che avrebbero avuto altro da riprendere – per esempio i sorrisi dei bimbi che alla partita erano arrivati col cuore in subbuglio e la speranza di veder trionfare i loro beniamini – se non fossero state già allertate al fine di non mancare eventuali eccessi…
Le telecamere – che a seconda dei casi e degli usi sono e diventano gioia delizia furbizia disperazione ammirazione tripudio offesaodio amore innamoramento o tradimento – come parte della recita, pronte a diventare giudizio inappellabile o illimitata fonte di contrasto e vergogna a seconda dell’orientamento imposto dai manovratori. Così nello sport, così altrove, sempre e comunque impostate per dare conto e spazio al peggio, assai raramente al meglio, che pure c’è e sussiste.
A Roma, per esempio, nel contesto di quella partita, da vedere non c’era solo la rabbia a lungo repressa di un allenatore diventato bersaglio di lazzi e frizzi, ma da vedere c’erano i volti degli appassionati, da sentire gli applausi e da asciugare le lacrime dei tifosi convenuti allo stadio per immaginarsi parte essenziale della festa piuttosto che testimoni di vendette e ripicche… Invece, tutto l’apparato mediatico è ruotato attorno a un uomo che benché vincitore era il segno inequivocabile della sconfitta… Sconfitta del buon senso e, in sua vece, trionfo dell’eccesso, del tronfio(rappresenta colui che avanza a testa alta e col petto in fuori, per lo più di persona esageratamente compiaciuta di sé, individuoborioso, superbo, altezzoso…), dell’esibizionismo, del fatalismo e anche, ma senza offesa dichiarata e assegnata, dell’imbecillismo(o imbecillità) che sempre assale chi, alla fortuna vuole aggiungere ragione vantata sebbene non pluralmente assegnata e certificata.
Poi, il giorno dopo, di nuovo le telecamere e i suoi agitatori,pronte a spiegare che l’offesa ripresa e diffusa il dì innanzi, era stata sanata con l’allontanamento immediato dell’attore protagonista di quegli attimi di certo non fuggenti… Quel tizio che la giacca buttava, la cravatta ruotava e la camicia sgualciva, ritenuto colpevole di comportamenti ritenuti non compatibili coi i valori della squadra che lo pagava e che lui allenava, era stato immediatamente esonerato, licenziato, messo all’angolo e immantinente rispedito a casa sua… Ai posteri (calcistici) l’ardua sentenzia. Qui e adesso, prendo il fattaccio e la sua conclusione qual metodi da applicare a campi diversi. Per esempio alla politica e ai politicanti.
Ma ve lo immaginate un esonero immediato per un Salvini, un Renzi, una Schlein, una Meloni, un Conte, un La Russa, un Valditara (sua l’idea di classi separate per alunni, diciamoeufemisticamente meno capaci…) un Lollobrigida (sua lasentenza – rapper e poco altro – che dice “quante guerre non ci sarebbero state, di fronte a cene bene organizzate”) o altriChicchessia, che fuor di telecamera ma con telefonino registrante appresso straparlano ingannano mistificano accusano fan gestacci e alzano improperi (qui irripetibili) contro chiunque non la pensi come loro? Io l’ho immaginato quell’esonero e subito ho visto schiere di politici andare a zonzo lacrimando e supplicando…comprensione e perdono perché, anche loro, son di quelli che tenendo famiglia hanno bisogno di almeno un posto assicurato e pagato.
Purtroppo, quell’esonero immaginato fu solo un attimo fuggentefuggevole e ingannevole. Appena dopo, infatti, tutto era uguale a quel che era stato prima. Allora ho ripensato al mio amico Enzo (Jannacci) che cantando metteva in chiaro la condizione degli umani impegnati chi a piangersi addosso e chi ad arricchirsi. Diceva il menestrello di aver visto un re “un re che piangeva / seduto sulla sella. / Piangeva tante lacrime / ma tante che / bagnava anche il cavallo. / Povero re / e povero anche il cavallo…” ai quali “sì beh, ah beh, sì beh, ah beh / è l’imperatore che gli ha portato via / un bel castello / di trentadue che lui ce ne ha / povero re / e povero anche il cavallo…”. Aggiungeva il menestrello che alla vista gli apparve anche un vescovo, che “anche lui piangeva, faceva un gran baccano, mordeva anche una mano, la mano del sacrestano, povero vescovo e povero anche il sacrista”; poi anche un ricco che “tapino, lacrimava su un calice di vino…”; ma anche un villano, “un contadino… mezzo rovinato…” dopo che gli avevano portato via “la casa, il cascinale, la mucca, il violino, la scatola di kaki, la radio a transistor, i dischi di Little Tony, la moglie…” e mandato “un figlio a fare il militare”, dopo avergli “ammazzato anche il maiale”… Ma lui, lui non piangeva, anzi ridacchiava e così cantava: “E sempre allegri bisogna stare, / che il nostro piangere fa male al re, /fa male al ricco e al cardinale; / diventan tristi se noi piangiam…/ E sempre allegri bisogna stare…”. Se vi è sfuggito il riferimento all’attore protagonista esonerato di cui ho detto nelle precedenti righe, vi faccio notare la stridente assonanza tra il suo cognome (Allegri) e quel “allegri bisogna stare” racchiuso nella strofa cantata dal sublime menestrello.
Però, riconosciamolo, è duro, faticoso e mortificante vivere da “allegri” in un mondo che di tristezza ne ha da vendere e regalare in grande e smisurata abbondanza. Se dite che tutto dipende “da che parte guardi il mondo” lasciando vaga e impalpabile la possibilità di guardarlo dalla parte e con gli occhi dei bambini, allora è chiaro che vi di molte realtà non s’apprezzerebbero presenza e verità… Per esempio, non ci accorgeremmo che la pace ha sempre la possibilità di sconfiggere la guerra, che la custodia del creato allontana gli attentati all’ambiente, che la fratellanza prevale sull’inimicizia e sull’odio. Basterebbe guardare il mondo da una diversa prospettiva, “liberandosi – ha scritto ieri un attento cronista del tempo – dai punti di vista individualisti e narcisisti degli adulti, che poi, riprodotti su larga scala, diventano guerre, squilibri economici, inquinamento, cambiamenti climatici e…disastri”, di cui ogni giorno la cronaca è testimone e giudicesevero.
La pace, soprattutto. I bambini, in vista della loro giornata (in programma domenica prossima a Roma, con Francesco a far da papà nonno e amico), con migliaia di disegni e letterine inviate da tutto il mondo, chiedono agli adulti di smetterla di litigare in famiglia, a scuola, nei luoghi di lavoro e soprattutto nei rapporti tra le nazioni. E i nonni, anche loro in vista della giornata che li metterà al centro dell’attenzione (è in programma il prossimo 28 luglio), sottolineano quanto prezioso potrebbe essere il loro apporto – specie di quelli che la guerra l’hanno vissuta sulla loro pelle – per dire “no” e “mai più” alla guerra. Sarebbe però necessario lasciar perdere il “dipende da che parte guardi il mondo” dando invece attualità e senso compiuto al pensiero che al suo posto mette la volontà di fare e di fare bene… Che cosa? La Pace, che altro bene cerchiamo se non quello che consente di essere parte di un mondo di uguali?
Edith Bruck (pseudonimo di Edith Steinschreiber, scrittrice, poetessa, traduttrice, regista e testimone della Shoah, ungherese poi naturalizzata italiana) ha scritto per l’Arena della Pace (ieri partecipata a Verona da papa Francesco) una supplica e una poesia che disegnano cieli e terre nuovi. Dice la supplica: “Uccidere è un po’ morire. Fermatevi! La vita è preziosa per ognuno ovunque sia, di qualsiasi fede e colore. La pace non sia solo una parola ma sostanza, volontà, rispetto per ogni essere umano. Alimentate quel bene che c’è in voi e lasciate morire di fame il male. Non cedete alla disumanizzazione da nessun potere, è possibile, io lo so. La pace è non odiare, dialogare. Ascoltate le vostre coscienze, non le parole del dittatore di turno!”.
Aggiunge la poesia, non a caso intitolata “educazione”:
E se il futuro non fosse
figlio del passato e del presente?
Ma orfano, tabula rasa
per i novi nati.
Da educarli al buono,
al bello, al rispetto
di ogni prossimo di qualsiasi etnia e fede.
Non dire mai ai propri figli
che sono i più belli
ma che tutti i bambini
sono belli.
Educarli a dividere
a scuola durante la pausa
la propria merendina
con chi non ha niente,
i giocattoli di chi ne ha tanti.
La condivisione fin da piccoli
è creatrice di pace,
di un mondo nuovo
che non è mai esistito.
Potrebbe mai essere?
Dipende solo da noi,
senza pregare Dio,
la responsabilità
di tutti i mali del mondo
è nostra.
Se così mutassero le cose, allora il menestrello, nel caso ritornasse, canterebbe, sono sicuro, che “sempre allegri siamo, se e quando in pace viviamo”. Ovviamente senza alcun “dipende” e nessun “tentennamento”.
LUCIANO COSTA