Il Domenicale

Volendo, potrebbe essere ancora un Buon Natale

È Natale e sarebbe giusto il tempo per smetterla di mostrare i muscoli e di mettere invece in evidenza l’intelligenza che consente di mettere pace anche dove sembra impossibile farle posto. È Natale, tempo di affetti sorrisi abbracci generosità e disponibilità a far nuovo ciò che è vecchio, ma invece è evidente che (quasi) tutto il mondo è immerso in un momento di grande difficoltà, dove violenza, odio, divisione e il sentimento di vendetta prevalgono, dove non c’è posto per affetti sorrisi abbracci generosità e disponibilità a far nuovo quel che è vecchio. È Natale, tempo di pace, ma si spara si muore si ammazza senza che neppure un’ombra di vergogna venga a rimarcare l’incapacità di ragionare per cercare il bene e non il male. È Natale, ma chi se ne importa di mille e mille e mille (e chissà quanti in più) disperati che chiedono al mare di accompagnarli altrove (magari laddove potrebbero ricominciare a vivere) ottenendo come risposta fogli preventivi di via e ordini di riaccompagnamento forzato donde sono partiti. È Natale, ma una bimba è stata abbandonata e tante altre non sanno neppure che colore avrà, se avrà, il loro domani. È Natale, ma come raccontava Dino Buzzati, scrittore invitato a novellare sulla cupidigia umana di fronte alla festa (anno 1965), è ancora evidente la propensione a strafare propria di noi “italioti”, beoti e contenti nonostante intorno sia tutto uno scricchiolamento di possibilità e di certezze.

Scriveva Buzzati: “Radio e televisione hanno bombardato il pubblico di messaggi invitanti allo spreco, nei ristoranti e nei caffè, sui cibi e nelle bevande sono state versate dosi di elisir promozionale, uomini e donne sono stati quindi presi da una irrefrenabile smania: entrano ed escono dai negozi, comprano, ordinano, spediscono, scrivono, telefonano, firmano assegni e cambiali (oggi però digitano numeri su carte fatte apposta per far spendere) mentre giganteschi furgoni carichi di strenne intasano le strade della città, cataratte di cartoline natalizie, biglietti, buste, calendarietti, immagini ingorgano le sedi postali e quindi traboccano all’esterno”. Quindi, allora ma forse anche adesso, Natale tal quale a una apocalisse annuale di cibo e regali. Cibarie e bevande in impressionante sovrabbondanza…”.

Ma com’è che siamo arrivati a tutto questo? Chissà chi lo sa, ma ci siamo arrivati. Così, anche questo, sarà un altro Natale, diverso e uguale ai mille e mille già archiviati. Ma purtroppo, questo, sarà ancora una volta molto diverso da come lo vorremmo… Perché sarà solo un altro, l’ennesimo, “periodo amaro, pieno di fragori di guerra, crescenti ingiustizie, carestie, povertà e sofferenza, fame e distruzione”. Ricordo il Natale del 1967…. C’era stata la “guerra dei sei giorni, che aveva infiammato il Medio Oriente. Mi aveva colpito, come mi colpivano le notizie che quasi ogni giorno arrivavano sulla guerra in Vietnam. Così nel presepe, invece che i pastori, ci misi i miei soldatini, con tanto di carri armati e un cannone puntato dritto contro la grotta… Poi, con gli amici del presepio che sognavano paesaggi illuminati e greggi dirette tutte dove la stella indicava, pensai che era inutile mettere muschio vellutato dove cadevano bombe e la gente s’ammazzava. Allora, in una distesa di cenere e sassi, nacque un bimbo a cui gli angeli del cielo avevano assicurato una campana di vetro come unica protezione. E fu tale lo scandalo che il parroco, anziano e lontano dai nostri sogni giovanili, disdegnò quel presepio invitando la gente a passare senza osservarlo.

Così ieri. E oggi? Oggi non bastano le ali per fare un angelo, però se le ali son ben sceneggiate fanno davvero un bel quadro. Vale per i fotografati con le ali (ai quali auguro ogni bene), ma anche e soprattutto per quei reggitori della “cosa pubblica” domiciliati in una città che si chiama Monfalcone (per noi vecchi sede di cantieri navali e poco altro), collocata dove la grande pianura incontra il mare e le sue lagune. Città e comunque paesotto: bello, placido, generoso, mite, fedele, devoto, contadino e, proprio perché contadino, spesso arrabbiato e battagliero (come quando, appena ieri o l’altro ieri, un popolo di “cristiani”, di nome ma evidentemente non di fatto, voleva obbligare musulmani e miscredenti accertati, a farsi da parte senza insistere sul diritto, in quanto cittadini, di poter contare su un proprio luogo di culto. Orbene, costoro, ieri o l’altro ieri, hanno deciso di mettere in chiaro che loro sono espressione non secondaria di civiltà e tradizione cristiana, dunque, non disponibili a sopportare invasioni da parte di gente indisposta verso tale civiltà e tali tradizioni. Tradotto in moneta significa che il loro è un “paese a cultura Occidentale e di profonda tradizione Cristiana”, in cui chi la pensa diversamente o anche solo “chi non intende rispettare la cultura e le tradizioni locali è invitato ad andarsene”.

Spero che gli amici di quel paesotto-città, di cui volentieri ricordo gli scampoli di pollaio usati come auguri, non si offendano se oso dissentire dal parapiglia messo in mostra e, secondo me, contrario non solo a ogni logica di civile convivenza, ma anche al comune buon senso e, cosa non da poco, pure alla Parola diffusa dagli  Apostoli di Gesù, la quale, a me e a tutti, ricorda che “non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno…”. Se dunque, almeno secondo l’apostolo Paolo, tra chi ha fede in Cristo non esistono più differenze di etnia, sesso o classe sociale (dice testualmente: “Non è la circoncisione che vale o la non circoncisione, ma la fede che si rende operosa per mezzo della carità”), perché mai dovrebbero sussistere divisioni tra chi è abitante e chi il destino “destina” a cercar di esserlo?

L’impressione è che qualcuno, di fronte al proliferare di parole che generano paura, piuttosto che opporsi con altrettante parole che generano fiducia, preferisca impantanarsi nei divieti e nelle distinzioni tra chi può stare e chi deve andar via, tra bianchi buoni e negri cattivi, ma anche viceversa, tra comunitari ed extracomunitari, regolari e irregolari, belli e brutti, virtuosi e peccatori, perbenisti e furfanti. Oppure, come sta avvenendo dalle parti di quel paesottto-città, tra cristiani e chi la pensa diversamente. Questione di fede? Ma va là… “Affermare la propria fede – scriveva Sébastien Castellion quasi cinquecento anni fa – non è bruciare un uomo, ma piuttosto farsi bruciare per essa…”. In parole adattate all’oggi, vuol dire che “vivere da cristiani presuppone porte spalancate e mura abbattute”. Magari, anche avere notizie del proprio paesotto-città senza che prevalga il timore di presentarsi come paesotto-città dove alla parrocchia dei cristiani si aggiunge la moschea dei musulmani o la sinagoga degli ebrei. E siccome domani è già Natale, a tutti e a ciascuno converrà ricordare che più di duemila anni fa (esattamente 2023, sempre che il computo degli anni sia reale), a un “Bimbo” nato nella mangiatoia bastarono una stella, quattro angeli, dieci pastori e cento pecore per spiegare al mondo di che pasta era fatto. È anche vero che gliela fecero pagare (lo misero “appena” in croce, costringendolo a morte atroce), ma niente e nessuno riuscì ad offuscare la sua immagine. Anzi, dalla croce lui passò, dopo tre giorni, alla risurrezione. E questo, credetelo, gli assicurò credito illimitato e duraturo tra gli umani.

Ci sono tanti e diversi modi per vivere Natale: serio, poco serio, solo consumistico. Incomincio dall’ultimo, quello che va di moda. Illuminato dalla risposta data da un ragazzo interpellato sulle sue aspirazioni future – “io farò il panettoniere, diventerò ricco e famoso”, disse in maniera tanto esplicita quanto provocatoria -, ho anch’io capito che a una certa età (speriamo solo a quella) su qualsiasi prospettiva lodevole-culturale-sociale-politica o addirittura normale, è prevalente l’idea del far soldi, presto, subito e senza mettere limiti al possibile e all’immaginabile. Se state pensando che questa sia una delle tante esagerazioni messe lì dal buontempone che vuole menomare la reputazione dei ragazzi e tarpare le loro giovani ali, avventuratevi oggi che è vigilia di Natale, dalle parti di quelle titolate botteghe che dell’arte panettoniera son diventate maestre conquistando con ciò titoli roboanti e dove il valore della merce richiesta ha raggiunto vette vertiginose (il che non è certo una colpa, ma semmai la conseguenza di un certo modo di classificare il prodotto e chi lo fa). In una di queste, se volete un natalizio panettone, mettetevi in coda e (forse) sarete ammessi all’acquisto; in un’altra, quale che sia l’ora, dovrete soltanto essere fortunati dato che l’acquisto è direttamente  proporzionale ai desiderata dei golosi; in un‘altra ancora, invece, senza orario definito, tutto dipenderà dalla potenza e dal numero delle prenotazioni… Buon per i pasticceri, che sono grandi professionisti e lavoratori a cui non danno fastidio levatacce e notti al forno e che quindi hanno tutto il diritto di veder riconosciuta la loro fatica, e per i clienti che vogliono e possono, un po’ meno per i tanti che pur volendo non possono e che in base al non potendo, soddisferanno la voglia del “pane tozzo, dolce e uvettato”, inventato a Milano, acquistando il similare prodotto in qualche supermercato. Il riferimento ai pasticceri è puramente casuale. Infatti, se al loro posto figurassero vignaioli, salumieri, hobbisti, orefici, orologiai, casoncellai, osti, chef, boutiquisti, profumieri, scarpieri, telefonieri, borsivendoli, fruttivendoli, verdurendoli, straccivendoli, librivendoli, sci-vendoli, sciate-felici e chi altro dir si voglia (non fate caso alle storpiature o contraffazione dei nomi, è solo un’invenzione momentanea) il ragionamento, visti i tempi che corrono, non cambierebbe. Infatti, come dice il manuale delle vecchie marmotte, il prezzo di un prodotto è stabilito prima dalla notorietà e visibilità di chi lo produce, dall’ampiezza della pubblicistica che gli viene applicata, dal numero di volte che lui o lei appaiono in tv e dalla mole di parole che i facitori sapranno mettere a disposizione del grande pubblico. II resto verrà di conseguenza.

Un altro modo di fare Natale, quello poco serio (ma anche questa classificazione è puramente casuale) è racchiuso nel rituale di auguri e regali, una sorta di tu dai una cosa a me io do una cosa a te, che tanto piace e tanto compiace, a cui è difficile sottrarsi. Questo modo di procedere avvalora la tesi di una festa sovrabbondante di buonismi, di auguri e di regali, cioè una gherminella fatta apposta per dare l’impressione che almeno una volta all’anno sia possibile sorridere e sorridendo spargere intorno e respirare grammi di gioia. In questo caso, però, converrà spiegare ai cultori di tale prassi che al fondo della loro via non troveranno altro se non un’altra via uguale, noiosa, molto noiosa, piuttosto che gioiosa. Essendo tristemente vero che ciclicamente gli umani – uomini e donne senza alcuna differenza – creano le condizioni per realizzare forme di società in cui la gioia è assente (immaginate un qualsiasi regime imperante, per esempio quello inventato dal novello zar di tutte le (sue) russie) e ditemi se è portatore di felicità), sembrerebbe pressoché impossibile inventare, qui e adesso, magari perché è Natale, brandelli di gioia da usare come antidoto alla cultura del tanto peggio tanto meglio. Invece, come dice il poeta, se davanti alla stella io e voi ci lasciassimo nuovamente “illuminare d’immenso”, allora sarebbe possibile raccogliere tutti i brandelli di gioia sparsi o nascosti e trasformarli in una coperta tanto grande e comoda da assicurare protezione e conforto al mondo intero.

 

E questo è, sempre e solo secondo me, il modo serio di fare Natale, che è praticabile sebbene non sia di facile applicazione e neppure di gran moda. Si tratta di vivere sorridendo, che è il massimo della vita. E se riesci a sorridere anche quando senti che il cuore va in affanno o il sangue ribolle sotto la sferza del tumore maligno, allora la vita ti appartiene e nessuna catastrofe potrà mai interromperla. Vivere quando è Natale, quel Natale che della vita è principio e cantico, è grazia concessa a tanti, addirittura a tutti se è vero, come è vero, che nel canto che gli angeli intonano nella notte santa viene invocata pace in terrà per tutti gli uomini di buona volontà. Si potrebbe obiettare che scarseggiano gli uomini e le donne di buona volontà. Ma, chi siamo noi per includere qualcuno e escludere altri? Però, di che colore-dimensione-aspetto-consistenza-certezza è la vita che accompagna Natale?

 

Se, come dice il Vangelo, crediamo che un certo Gesù “si è fatto carne ed è venuto ad abitare tra noi”, la risposta è semplicissima: Natale è il segno della speranza che diventa certezza di salvezza. Se invece ci assale il dubbio che la venuta del Bimbo destinato a salvare l’umanità sia una invenzione dei soliti quattro visionari, la risposta diventa un groviglio di sé e di ma senza fine e, peggio, senza soluzione, quasi che la condizione di dubbiosi impedisca di fatto qualsiasi risposta. Ma se oltre questo, si resta convinti che Natale, qualunque faccia abbia, è la festa delle feste, allora sarà facile “illuminarsi d’immenso”, respirare gioia e vedere oltre il buio che circonda uomini e cose.

 

È Natale! E se ancora non l’avete capito, sono ancora qui per dirvi che è davvero Natale, che è tempo di gioia per tutti, che è festa della vita, che niente è più importante di questo e di tutti i Natale che verranno, che siamo nel bel mezzo di una gioia grande, che la festa è di tutti e di ciascuno, indipendentemente dalla capacità di sorridere e di immergersi in quel sano umorismo che arricchisce il vivere rendendolo, appunto, tutto da vivere.

 

Se poi, che sia o non sia un Natale come quello ipotizzato dal cialtrone scrivano di turno non vi interessa, tuffatevi nel panettone (va di moda, è ricercato nel mondo, sembra l’apoteosi del fare e dell’orgoglio italiano…). Se non lo sapete, per fare un buon panettone servono pazienza, passione e buoni ingredienti come acqua, farina, sale, uova, latte, burro, zucchero, canditi, uvetta, qualche mandorla, vaniglia e lievito. Per mangiarlo basta essere golosi; per gustarlo è necessario attenersi ad alcune regole (non abbuffarsi, non mischiarlo con salse improprie, non spogliarlo di uvetta e canditi – altrimenti diventa “altro” -, non denudarlo di crosta e mandorle, non tagliarlo di traverso…); per regalarlo, invece, soprattutto di questi tempi, servono coraggio e mitezza: coraggio di spendere cifre notevoli per avvicinarsi a quelli di pasticceria (più è blasonata, più è salata la spesa) o anche solo quello necessario per regalare un prodotto acquistato con pochi euro (ieri l’offerta è arrivata a due euro e cinquanta al pezzo), magari anche buono, ma certo non in grado di fare la differenza o di creare immagine; mitezza per accogliere probabili schiaffi morali (sempre il solito: basta, non ne possiamo più) e contraccambiarli con splendidi sorrisi.

 

È già Natale e il panettone, se non per tutti almeno per tanti, diventa oggetto d’uso comune: regalo, ricordo, segno, addobbo, pretesto, compensazione, gioia, dolore. Forse anche metafora della vita. Perché, in fondo, la vita assomiglia ad un panettone. Al pari del classico dolce, infatti, è varia, rotondeggiante, dolce, soffice, gustosa, insipida, delicata, bruciata, buona o grama a seconda degli usi che se ne fanno. Attorno ad un panettone si costruirono e si infransero sogni; il panettone diede sapore al Natale; quel dolce divenne un classico dell’Italia festaiola nel mondo; per causa sua Milano (ma anche le città che gli stanno intorno), ancora adesso, più che una metropoli è un panettone in cui tanti si tuffano per cercare lavoro, fortuna, soldi, visibilità, successo e futuro. La buona anima del Gino, col panettone che gli regalava il “padrone”, metteva a posto la colazione di una settimana; l’anima spilorcia del commendator Gustavo, invece, col panettone metteva a posto, acquietandola e zittendola, la sua allegra coscienza. Eppure, uno solo era il messaggio che il parroco si ostinava a ripetere dal pulpito: “Siate buoni e generosi, perché è Natale”. Un tale, buono come il pane ma strano, strambo e noioso come i moscerini, convinto d’essere il miglior poeta del circondario sebbene non trovasse neppure un sorcio disposto ad ascoltare una delle sue poesie, passava di cortile in cortile annunciando felice che “a Natale anche le pietre cantano”. Nessuno gli credeva, però quasi tutti gli volevano bene e più di uno lo invitava a raccontare ai bambini qualche storia appena inventata.

 

Oggi di un simile “contastorie” si son perse le tracce. Però, se aspettando Natale vi accorgete di essere a corto di fiabe da raccontare ai piccoli, prendete spunto da quelle impastate col panettone. Una racconta di tale Ughetto, falconiere, che per amore di Algisa, la bellissima figlia del panettiere della contrada, si fece assumere mettendo a disposizione del severo papà il suo talento di impastatore di farina e stranezze, utili a risollevare le sorti della bottega. Un’altra racconta la storia di Toni, garzone alla corte del Duca, che alla disperazione del cuoco, disattento al punto di far bruciare irrimediabilmente il dolce preparato, pose rimedio mettendo a disposizione il suo pane, cotto il mattino a casa e pieni di tutto ciò che costava poco e che perciò non era sopraffino. Quel dolce fatto in casa ottenne un successo strepitoso. “Lè ‘l pan del Toni”, confessò il cuoco alla corte. Da allora, tutti lo chiamano “pane(t)toni”. Una terza fiaba ricorda che quando Natale bussava alla porta, era abitudine dei fornai milanesi, ma forse anche lombardi, di aggiungere al pane destinato ai “plebei” (poveri cristi di contrada e di campagna), le leccornie – uva passa, bucce di arance e mandarini, miele, zucchero, burro, vaniglia e lievito –  quotidianamente riservate agli “aristocratici” (i soliti potenti), così da renderlo, almeno una volta all’anno, non solo “pan de ton” (pane di tono, elegante) o “de scior”, ma “paneton”, pane di tutti.

 

Poi, se vi resta tempo, provate a mettere sul panettone una stella. Ci provò anche Trilussa, poeta sognante, che il panettone non lo conosceva e che al suo posto usava una pagnotta di proporzioni considerevoli. Per lui, però, la stella era tutta da inventare. E per trovarla scrisse una poesia, ovviamente sognante, che scherzando metteva in chiaro come il Natale non era Natale senza un pizzico di fede, un poco di giustizia e tanta carità… Quella poesia diceva:

La Pecorella vidde ch’er Pastore
guardava er celo pe’ trovà una stella.
“Quale cerchi?” je chiese, forse quella
che porterà la Pace,
che porterà l’Amore?”.
“La stella c’è, ma ancora nun se vede…”,
je rispose er Pastore. “Brillerà
appena sarà accesa da la Fede,
da la Giustizzia e da la Carità”.

Ho divagato e magari esagerato in righe e commenti. Ma è Natale e merita attenzioni e parole per raccontarlo…

LUCIANO COSTA

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