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Cent’anni di comunismo a Brescia

Orgoglio bresciano, oppure, più semplicemente, voglia di raccontare una storia capace di caratterizzare quel che Brescia e i bresciani hanno vissuto specchiandosi o magari partecipando alle vicende che hanno segnato i cent’anni del Partito Comunista Italiano. Tutto questo è adesso racchiuso in un volume (“Comunisti – il Pci bresciano: una breve storia – 1921-1990” – Edito da “Liberedizioni” per Fondazione DS), che si avvale dei contributi di Claudio Bragaglio, Paolo Corsini, Paolo Pagani, Gianfranco Porta e della cura di Marcello Zane, il cui scopo è leggere e spiegare le vicende bresciane contrassegnate da “elementi di peculiare differenziazione rispetto al panorama politico e sociale nazionale”.

Nel primo capitolo, “dalle origini al 1924”, Gianfranco Porta, ancor prima di fissare l’attenzione su quel 1921 che segna la nascita del Pcd’I (Partito comunista d’Italia), disegna il vissuto dalla sinistra (tutta “socialista”, sebbene il vento di una sinistra più accentuata e radicale già facesse sentire i suoi effetti) in cui stazionano “un movimento operaio debole e orfano di una rappresentanza politica definita”, per di più “affidato soltanto a manifestazioni spontanee rapidamente e sistematicamente represse”. I “socialisti”, alla vigilia della prima guerra mondiale, contano 541 iscritti, che diventano 174 nel 1918 e 296 nel 1919, nell’anno che segna l’effettiva ripresa di un’idea di sinistra definita e che salutando il 1920 conta addirittura 2590 iscritti. E’ più consistente, invece, il computo degli iscritti alla Camera del Lavoro, la roccaforte del cosiddetto “sindacato rosso, che nel 1914 conta 3010 iscritti suddivisi in 32 leghe, ma che nel 1920 di iscritti ne conta già 25.000 suddivisi in 200 leghe e 5 federazioni di mestiere.

Brescia e provincia, pur dovendo confrontarsi con una fronda sempre più apertamente “rossa”, restano tendenzialmente “socialiste” e a Livorno, il 21 gennaio 1921, i delegati bresciani, con 4 astenuti, assegnano 1034 voti agli unitari e 230 ai comunisti. In quel momento Brescia. bocciando la scissione non riconosce la nascita del Pcd’I e preferisce restare nell’alveo socialista. Nei mesi successivi, però, l’imperativo diventa quello di portare sotto la bandiera comunista “gli anonimi lavoratori che veramente sanno affrontare la vita e il carcere e non conoscono gli opportunismi e le pose rivoluzionarie”. Questo, dice lo storico, è “un tempo di combattività operaia molto elevata” in cui trovano posto anche le “squadre armate”; un tempo dal quale i socialisti escludono i comunisti ricevendo in cambio un provocatorio “gettatevi nelle braccia della borghesia, ormai vostra padrona; mettetevi al suo fianco, schieratevi contro di noi, così almeno vi avremo di fronte”.

Nel 1921, dopo la scissione di Livorno, a Brescia il Pcd’I conta 135 iscritti e sette sezioni; nel 1922, in piena crisi di adesioni “ogni attività del partito è soppressa sebbene in generale i compagni siano rimasti fedeli e nessuno sia passato ai fascisti”; nel 1923 gli iscritti sono soltanto 54; nel 1924, dopo il delitto Matteotti, la voce dei comunisti è portata in piazza dalla Camera del Lavoro che delibera di “tenersi a disposizione per attuare qualunque manifestazione di protesta contro i responsabili del truce delitto”.

Degli uomini che hanno fatto la storia del partito parla diffusamente Paolo Corsini nel secondo capitolo (“Il Pci bresciano dal fascismo a Berlinguer – 1926-1975”). Nello squallore di un tempo in cui “il fascismo prende tutto e riduce al silenzio la stampa” emerge subito Italo Nicoletto, comunista dal 1924, con appena quindici anni da esibire ma con la determinata volontà di “cambiare le cose” e di dare voce al “proletariato oppresso”. E proprio per questa scelta, nel 1927, Nicoletto conosce il carcere, poi l’esilio e il confinamento che lo rendono “un comunista per il quale decisiva e fondamengtale appare l’istanza sociale, rivoluzionaria, che ne aumenta lo spirito di solidarietà e condivisione verso operai e contadini”. Sulla scia di Nicoletto si stagliano poi le altre figure, emblematiche dei primi anni del comunismo bresciano. Tra questi spiccano Aldo Caproni, avvocato, costretto ad espatriare a Parigi, poi arrestato e costretto al soggiorno obbligato e poi Antonio Forini e Casimiro Lonati, veri comunisti, primi nella fatica che comporta l’essere comunisti e in prima linea nelle lotte contro il fascismo. Così fino al 1943; poi, scrive Corsini, “cambia tutto”. Cattolici, comunisti e socialisti, con l’apporto di liberali illuminati, senza distinzioni, diventano gli artefici della Resistenza e della liberazione. Alla fine delle ostilità, con la libertà in tasca e il vento della democrazia pronto a gonfiare le rispettive bandiere, ognuno torna a fare per sé. Il 5 maggio 1945 i comunisti, all’unanimità, eleggono segretario Italo Nicoletto al quale tocca subito “operare contro una Democrazia Cristiana forte del collateralismo ecclesiastico”. Convinto che solo dando spazio all’informazione è possibile “portare le masse al comunismo”, Nicoletto fonda il giornale “La Verità” (traduzione del sovietico “Pravda”) che procede e si aferma pur tra evidenti alti e bassi. Nel 1948, per le prime libere elezioni, per sostenere la Democrazia Cristiana, arriva a Brescia Alcide De Gasperi al quale i comunisti oppongono Nicoletto e i socialisti Ghislandi. Il 14 giugno 1948 vincono i cattolici e Bruno Boni, democristiano emergente, con l’appoggio dei comunisti, diventa sindaco e sceglie Dolores Abbiati, una di loro, come suo vice. Poi, di nuovo, ognuno va per conto suo. Il Pci allunga la lista degli iscritti e alla solida base operaia aggiunge insegnanti, tecnici, professionisti e artigiani. Però, nulla impedisce a Boni di essere “sfinge attrattiva” di un popolo devoto e fedele. Nel 1956 i fatti d’Ungheria (l’Unione Sovietica invade il Paese e mette a tacere ogni anelito di libertà e democrazia) “provocano un animato, talora persino virulento, dibattito interno con l’abbandono di alcuni esponenti di spicco provocando una crisi anche di stampo organizzativo”, che si chiuderà soltanto nel 1960 con l’elezione di Adelio Terraroli alla segreteria provinciale.

Gli anni Sessanta sono quelli contrassegnati dalla contrapposizione con la DC, “balena indebolita ma ancora viva”, che rafforza la sua posizione e inventa la coalizione di centro-sinistra dalla quale, ovviamente è escluso il Pci; gli anni Settanta, dimentichi del burrascoso sessantotto e del doloroso primo autunno caldo, accolgono nuove personalità, ciascuna portatrice di nuove istanze e di nuove prospettive; a metà anni Settanta – 28 maggio 1974 – la strage fascista di piazza Loggia accentua le contrapposizioni e nel contempo obbliga tutte le forze politiche che si riconoscono nella Costituzione a severi ripensamenti.; nel 1975, eletto sindaco Cesare Trebeschi, uno di cui i comunisti si fidano e con il quale favoriscono “accordi programmatici”, incomincia a delinearsi la fisionomia di quello che Moro e Berlinguer chiameranno “compromesso storico”. Quel vento di rinnovamento trova spazio a Brescia quando, il 19 giugno 1977, Berlinguer parla in piazza Loggia sapendo che la città rappresentata dal sindaco Trebeschi guarda con favore al nuovo corso. E poco importa se per ragioni di ordine pubblico quello che Trebeschi avrebbe detto in piazza come premessa al discorso di Berlinguer trovò spazio e pubblicazione solo su “La Voce del Popolo”, il settimanale della Diocesi allora diretto da don Antonio Fappani.

Paolo Pagani, nel terzo capitolo (“Il Pci bresciano e il mondo del lavoro 1945-1970”) sottolinea la “concezione terzinternazionalista che distingue tra lotta economica e lotta politica subordinando la prima alla seconda”, illumina sulle grandi lotte ideologiche e sui grandi scioperi, ripercorre le grandi lotte interne al partito, esalta il ruolo di Italo Nicoletto che per conto del partito orienta anche le scelte del sindacato. Un lungo esame, dal quale mancano pagine e pagine che forse (ma è solo una cosiderazione di chi ha letto e ore commenta) dovevano essere messe in evidenza così che mergesse lo spirito che allora regnava e che conduceva sempre e comunque alle direttive del partito.

Nell’ultimo capitolo (“Il Pci bresciano e il realismo delle possibilità – 1970-1990”), senza alcun forse il più politico e perciò di complessa articolazione, Claudio Bragaglio, appellandosi “all’ironia di un Togliatti che vede nel Pci la giraffa che esiste pur sovvertendo le leggi della zoologia”, racconta uomini e fatti con la precisione del professore che agli allievi regala indicazioni che sono la somma di ciò che realmente è accaduto. Affiorano così i sintomi del riformismo, ma anche ciò che resta del massimalismo; emerge lo spirito comunista, che abbandonati i furori rivoluzionari si appresta a diventare a pieno titolo quello che Peter Glotz aveva paventato, vale a dire “un partito socialdemocratico” che però deve “trovare il coraggio di dirlo apertamente e con la massima chiarezza”. Bragaglio scandaglia gli anni e di ognuno sottolinea conquiste, delusioni, contrasti, incontri, mischiamenti e allontanamenti; evidenzia il ruolo delle forze cattoliche – Acli e preti operai, per esempio – più propense a concedere credibilità al nuovo corso comunista; saluta il compromesso storico che inonda l’aere pur senza provocare svolte immediate a partire dal 1973; ricorda gli eccessi sindacali (targati prima Sabattini e poi Cremaschi); saluta le larghe intese che hanno nel sindaco Trebeschi il più convinto assertore; assegna all’incontro del Consiglio comunale con Paolo VI (voluto da Trebeschi) il valore di una vera e propria svolta nel modo di intendere i rapporti tra cattolici e comunisti; stigmatizza la Dc delle contrapposte fazioni che nel ministro Prandini hanno il loro punto di riferimento; racconta il travaglio sopportato da Trebeschi nel secondo mandato, con il sindaco solitario condottiero di una nave che per galleggiare doveva fare affidamento sul voto di un sindacalista prestato alla politica, Gian Franco Caffi, non allineato ma fermamente convinto della bontà delle scelte portate avanti da quel primo cittadino “tutto d’un pezzo” e certo non legato al carro dei potentati. Bragaglio delinea anche il suo ruolo di temporaneo segretario del Pci bresciano; corre velocemente a Piero Padula, successore di Trebeschi (che interpreta, dice “il miglior municipalismo”) poi a Corsini e Martinazzoli, il primo che inaugura la stagione dell’Ulivo, il secondo che reduce da Roma regala alla città squarci di ragioni politiche da vantare e difendere. Infine, la “Bolognina” che nel 1989, dopo la caduta del muro di Berlino, segna la fine del Pci…

Il libro racconta la storia dei comunisti bresciani con indubbia passione e qualche evidente mancanza di esame e giudizio (sull’Ungheria, su Praga, sul sessantotto, sui brigatisti rossi, sul tramonto dell’ideologia comunista, sulla Polonia, sulla decadenza inesorabile della Sovietica Unione…), giustificata se questa è da considerarsi soltanto una “breve storia” dedicata all’esperienza bresciana che “possiamo rileggere – scrive Claudio Bragaglio a conclusione – con l’orgoglio delle nostre migliori radici, anche al fine di rendere più sicuro il nostro passo rivolto al futuro”. In fondo, come dice il poeta “non esiste il cammino, il cammino si fa camminando”.

LUCIANO COSTA  

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