I libri, benché siano ovunque (o quasi) considerati meraviglioso insieme di pensieri pensati, di emozioni frantumate per poter essere consegnate a chiunque, di parole coniugate per esprimere e raccontare, di pagine destinate a sottomettersi al volere di chi le sfoglia (ora con amabile tenerezza, ora con rabbia, ora con fare distratto ma sempre con il medesimo metodo, che solleva l’angolo per andare a scoprire che cosa cela la pagina seguente), sono pericolosi e chi li scrive ancora di più. Tanto tempo fa, giusto il necessario per dimenticare, il regime della svastica ordinò di fare falò dei libri, che secondo la sua malcelata protervia erano “portatori e diffusori di idee…”. E le idee, appunto perché frutto dell’intelligenza, non erano ammesse. Purtroppo, quell’orrenda pagina di storia non restò l’unica. Così, decenni dopo e dopo che la storia aveva condannato quel modo di procedere, bastò un altro libro per scatenare la furia di chi nei libri vedeva il nemico e in chi li scriveva il soggetto da eliminare. Non era più il regime della svastica a volere il falò, ma un suo emulatore: il regime degli ayatollah che in Iran e altrove dettava legge e leggi a suo piacimento presentandole come volere del Profeta, Allah, che sicuramente guardava dall’alto (nel paradiso c’è infatti posto per tutti) ma che altrettanto sicuramente non condivideva, essendo risaputo che lui voleva il bene il non il male.
Il libro scritto da Salman Rushdie (intitolato “I versetti satanici”) per dare senso ai pensieri e alle idee, è diventato così condanna assoluta e definitiva per il suo autore. Una condanna impossibile da eseguire (l’autore è sotto protezione continua e ogni suo nemico reale o anche solo ipotetico è controllato), ma sistematicamente tentata. L’altro ieri, nella libera America, è andato in scena l’ultimo tentativo di eseguire la condanna: mentre stava tenendo una conferenza lo scrittore è stato infatti aggredito e accoltellato da un uomo spinto fin lì dal volere degli ayatollah.
Rushdie è adesso in cura e certo, lo speriamo, supererà il trauma. Però, rimarrà il condannato a morte dalla furia degli ayatollah. Lo stesso Khomeini, capo supremo del regime, l’anno dopo la pubblicazione del libro, lanciò una fatwa contro di lui offrendo una ricompensa da 3 milioni di dollari a chi lo avesse ucciso. La guida suprema Ali Khamenei ha rinnovato la fatwa nel 2017 e poi nel 2019, e ancora ogni anno, quando nel giorno della promulgazione della condanna, il 14 febbraio 1989, manda allo scrittore un biglietto di San Valentino, dove gli viene ricordato che la condanna non è ancora venuta meno.
Nato a Bombay nel ’47, cresciuto nella regione del Kashmir, Rushdie si trasferì in Inghilterra sin dal ’60, dove studiò al King’s College di Cambridge. Esordì in narrativa con Grimus (1975), una favola allegorica mutuata da “Il linguaggio degli uccelli” del poeta persiano duecentesco Farid al-Din ’Attar. La seconda opera, I figli della mezzanotte (1981), che ottenne un successo clamoroso e fece incetta di premi, racconta la storia di Saleem e di altri mille bambini, nati nella notte del 15 agosto ’47, il giorno dell’indipendenza indiana. E’ del 1988 il suo libro più celebre e controverso (I versi satanici, divenuti un vero e proprio caso letterario a livello planetario) che racconta di due viaggiatori, Gibreel Farishta e Saladin Chamcha, che salvi dopo un terribile incidente aereo, divengono la raffigurazione del Bene e del Male e, ovviamente, lottano senza esclusione di colpi.
L’evento che cambiò per sempre la sua vita arrivò il giorno di San Valentino del 1989, a meno di sei mesi dalla pubblicazione del volume, quando l’Ayatollah Khomeyni, la guida suprema dell’Iran e autorità per tutti i musulmani sciiti, emise una fatwa chiedendo la morte di Rushdie e dei suoi editori. “Invito – dichiarò Khomeyni – tutti i valorosi musulmani, ovunque si trovino nel mondo, ad ucciderli senza indugio, in modo che nessuno oserà d’ora in poi insultare le sacre credenze dei musulmani”. Seguì una catena di minacce e sangue: nell’agosto del 1989 una bomba scoppiata anzi tempo in un albergo londinese vicino alla stazione di Paddington uccise uno degli attentatori, Mustafa Mahmoud Mazeh; nel 2005 un giornalista del Times scoprì in un cimitero di Teheran una lapide che commemorava Mazeh come “il primo martire a morire in una missione per uccidere Salman Rushdie”; nel luglio del 1991 il traduttore italiano dei Versetti, Ettore Capriolo, fu picchiato e ferito a coltellate nella sua casa milanese (l’aggressore voleva conoscere l’indirizzo di Rushdie); nello stesso mese fece una fine peggiore, morto assassinato, il suo traduttore giapponese, Hitoshi Igarash; anche l’editore norvegese del libro, William Nygaard e il traduttore Kari Risvik furono minacciati dalla rete anti-Rushdie (nonostante fosse sotto protezione, Nygaard venne ferito a colpi di pistola l’11 ottobre del 1993)… Per fortuna nessuna minaccia ha impedito allo scrittore indiano di continuare a scrivere libri. Benché costretto alla semi-clandestinità ha infatti pubblicato romanzi importanti come L’ultimo sospiro del Moro (1994) e La terra sotto i suoi piedi (1999), raccolte di racconti (Est, Ovest, del 1994), libri per bambini (Il mago di Oz, visto in Italia nel 2000)…
Con un lavoro certosino e incessante Rushdie ha così confermato il prevalere delle idee sulle minacce e sui silenzi imposti da occasionali e feroci dittatori. Poi, l’altro ieri, un nuovo attentato, fatto con l’intenzione di farlo tacere per sempre. Ma per fortuna già domani le sue idee tradotte in parole torneranno a dirci che i libri sono goduria per la mente. E se qualcuno li considera pericolosi, vuol dire che la sua mente non è certo fatta per le grandi cose. Per loro, tutt’al più, resteranno i rimpianti di vedere senza capire, di ascoltare senza comprendere, di leggere senza gustare il sapore delle parole…
LUCIANO COSTA