Zingaretti, quello fino a ieri segretario del Partito Democratico non quell’altro che il fisico e la parlata li presta al commissario Montalbano, piace e dispiace, parla e straparla, tace e vocifera, improvvisa e programma, vede e stravede, allontana e avvicina, miagola e abbaia, esalta e stordisce, calma e eccita… tutto nello stesso momento, senza soluzione di continuità. Insomma, l’ex segretario dell’ex partito più importante dello scacchiere democratico, se i tempi fossero sempre di bonaccia, con quel suo essere e non essere, sarebbe l’ideale compagno di traversata; un po’ meno quando il vento cambia e la tempesta infuria.
Uno come lui, benché portatore di buonissime intenzioni, poteva giocare da mediano in squadre come Roma o Lazio, a piacimento, solitamente abituate a stupire cogliendo risultati tanto eclatanti quanto improvvisi, ma mai in quelle che come Juventus e Inter, sempre a piacimento, in testa e nei piedi hanno soltanto il gusto della vittoria. Invece, forse per non deludere i “quattro o otto ex comunisti” che lo spingevano a gran voce, osservato e compatito il Matteo (Renzi) impallinato dal fuoco amico, prese il suo posto di segretario del più importante ex partito di maggioranza relativa. Era il 17 marzo 2019 e tutto sembrava fatto apposta per ridare dignità, rappresentatività e voti al partito. Adesso, a distanza di due anni, appare evidente che quello era un fuoco fatuo, buono per mettere fuori qualcuno, un po’ meno per aggregare la fiducia necessaria a rimettere insieme i cocci del vaso straziato.
“Zingaretti sì è dimesso”, e mai notizia mi parve più scontata. Insomma, le dimissioni erano nell’aria, destinate a materializzarsi al primo colpo sferrato non da un avventuriero qualsiasi ma da un fedele diventato insofferente. Certo all’interno del PD, le cose non andavano per niente bene: troppe correnti l’una contro l’altra armate, troppi galli nel pollaio, troppe mezze verità (come quelle sui tentativi di avvicinare Salvini per tessere con lui la nuova versione della legge elettorale), tanti distinguo su temi cruciali (verso un congresso chiarificatore, per esempio), trame indefinite e non chiarite andate in scena nell’ultima direzione nazionale, la rivolta delle donne (non sufficientemente rappresentate nel Governo, sottovalutate nella distribuzione dei sottosegretari, messe all’angolo quando era chiaro che volevano il posto di vicesegretario del partito). E poi, quell’essersi fatto risucchiare da Conte quando era palese che l’autoproclamatosi avvocato del popolo non aveva più cartucce e simpatia da spendere.
Zingaretti se ne va; restano i problemi, tanti e tutti ben allineati sui muri del Nazareno. Cosa ne sarà di questo PD? Annunciando le dimissioni Zingaretti ha scritto ben più di un semplice addio o di un semplicistico “scusate il disturbo”: ha strapazzato e fatto a straccetti il partito. “Mi vergogno che nel Pd – ha scritto – si parli solo di poltrone e primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid, c’è il problema del lavoro, degli investimenti e la necessità di ricostruire una speranza soprattutto per le nuove generazioni”. E ancora: “Mi ha colpito il rilancio di attacchi anche di chi in questi due anni ha condiviso tutte le scelte fondamentali che abbiamo compiuto. Non ci si ascolta più e si fanno le caricature delle posizioni. Ma il Pd non può rimanere fermo, impantanato per mesi a causa in una guerriglia quotidiana. Questo, sì, ucciderebbe il Pd. Io ho fatto la mia parte, spero che ora il Pd torni a parlare dei problemi del Paese e a impegnarsi per risolverli”.
Zingaretti se ne è andato, restano i problemi di un partito che ha smesso di essere un partito moderno e modernamente progressista quando il partito è partito per destinazioni ignote. Per esempio, andando alla ricerca del tempo perduto, quello di un unanimismo la cui esistenza appariva reale solo nel vecchio apparato comunista confluito per convenienza, cioè per non scomparire, nei Diesse (democratici di sinistra); rispolverando gli ideologismi; dando credito ai predicatori di un futuro all’incontrario; scegliendo compagni di viaggio senza arte e parte, epperò convinti di possedere non solo la verità ma anche quella lampada – di Aladino, che diamine! – buona per tutte le stagioni e, soprattutto, magico rimedio delle loro stellari cadute di stile, di forma, di contenuto, di azione e di politica vera.
Il Partito Democratico ha perso il suo segretario; quel che resta del partito deve ora inventarne un altro. Tanti anni fa, in un simile frangente, la madre di tutti i partiti democratici – la vecchia malconcia e cara Democrazia Cristiana – inventò Benigno Zaccagnini e ritrovò d’un sol colpo dignità e voti. Non vedo altri Zaccagnini in circolazione, però so che tra le fila ci sono giovani sconosciuti con idee per niente male, giovani anche assai più convinti, alla faccia dei soliti in vista, che si possono cancellare divisioni e veti ragionando su tre cose da fare subito e bene invece che su tre poltrone, forse belle e comode ma sicuramente indigeste. Nel frattempo, se il PD piange, gli altri non ridono: i fuorusciti dal M5S hanno inventato un gruppo dandogli il nome di “controvento”; i leghisti di lotta e di governo, orbati da Orban l’ungherese, non sanno dove stare; i forzisti tengono l’onda… Basta così, che il troppo storpia.
Zingaretti si è dimesso ma non, almeno per il momento, per colpa di Matteo Renzi. Poi, domani, si vedrà.
LUCIANO COSTA