Stracciando l’accordo che aveva firmato solo martedì scorso, con tanto di foto ricordo stile moschettieri (uno per tutti, tutti per uno), ieri Calenda è uscito dall’alleanza con Pd e +Europa: alle Politiche del 25 settembre correrà da solo. «Mai con chi ha votato contro Draghi o con chi dice no ai rigassificatori» aveva messo in chiaro il leader di Azione in settimana. E all’insegna del draghiano «costi quel che costi» ha mantenuto la promessa: indigeribile l’accordo supplementare che il Pd ha stipulato sabato con i Verdi e la Sinistra Italiana (tradotto in nomi, con Bonelli e Fratoianni). «È la decisione più sofferta della mia vita», ha ammesso Calenda dopo il grande annuncio, non nascondendosi le difficoltà della corsa in solitaria, rispetto al 30% di candidature condivise (e di probabili eletti) che gli garantiva l’accordo con il Pd.
Quale che sarà l’esito finale delle elezioni, la scelta del fondatore di Azione segna due passaggi storici per la politica italiana. Da un lato il definitivo fallimento del bipolarismo che a fine anni ‘90 sembrava la panacea di tutti i mali, disarmando i partitini che con il 5% dei voti finivano per diventare l’ago della bilancia di ogni possibile Governo (uno schema già messo in crisi nel 2018 dall’esplosione del fenomeno M5S, in origine una forza trasversale e fuori dagli schemi); dall’altro lato, la scelta di Calenda segna la rinascita del «centro», la vasta area politica dei moderati rimasta orfana di riferimenti dopo la scomparsa della Democrazia Cristiana.
Il problema, per i tanti nostalgici, è che finora chi ha provato a raccoglierne l’eredità ha ottenuto consensi minimi, nemmeno paragonabili a quelli della mitica balena bianca. Qualcuno ha continuato a galleggiare, ma senza mai incidere nelle scelte che contano. Altri sono stati letteralmente spazzati via. Quale sarà il destino di Calenda lo scopriremo fra un mese e mezzo. Solo allora capiremo chi avrà avuto ragione fra chi oggi si dispera e chi festeggia. Come ammonisce l’antico adagio, ride bene chi ride ultimo.
M.B.