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Il bello della democrazia

Toccherà a lei, Giorgia Meloni, premier incaricata, chiedere la fiducia. Non v’è dubbio che la riceverà, qualunque e quale sia il tono del discorso programmatico che presenterà al Parlamento. Avendo vinto (anzi: stravinto) alla lotteria elettorale, chi mai potrà offuscare la sua stella, o permettersi di farle notare la precarietà di certe idee che le circolano intorno o la pochezza di certi suoi alleati? In teoria, dovrebbe farlo l’opposizione – oggi un misto di menti litigiose e incapaci di organizzarsi, domani chissà chi lo sa -, ma quale oppositore s’azzardi a farla e come intenda proporla nessuno ancora lo sa. Se qualcuno si dispiace e dispera, sappia che la democrazia è bella proprio perché consente al secondo come all’ultimo di diventare, prima o poi, anche primo.

Stefano De Martis scrive che “nel momento del rinnovo della rappresentanza parlamentare e della conseguente nascita di un nuovo esecutivo è del tutto comprensibile che l’enfasi del dibattito pubblico sia posta sugli elementi di discontinuità rispetto alla situazione preesistente”. E’ il frutto della democrazia. E in una democrazia ben assestata e solida “il ricambio è sempre alla portata degli elettori e avviene secondo regole condivise e prestabilite, senza che intervengano eventi traumatici di rottura della continuità istituzionale”. E la continuità “è un valore fondamentale nello Stato di diritto” così alto e forte che da solo “costituisce la garanzia che la volontà di mutamento espressa dagli elettori possa avere corso in modo ordinato ed efficace in relazione all’interesse generale del Paese”.

In più, la continuità “si manifesta con evidenza nelle norme che presidiano la durata degli organi costituzionali”, i quali resistono e agiscono secondo la formula pro-tempore, a prescindere da chi li presiede. Questo significa che sono temporanei, vale a dire che son destinati a durare fin che il voto popolare non stabilisca che è tempo di cambiare. E non cambieranno solo se e come daranno prova di essere capaci di svolgere “un’azione responsabile”, soltanto e come daranno prova della “lealtà” richiesta a chi si trova “a svolgere pro-tempore un incarico pubblico, a tutti i livelli”. Come ha spiegato Stefano De Martis “temporaneità non è precarietà: rispetto alla continuità è piuttosto l’altra faccia della medaglia, la consapevolezza di un limite, la percezione che quando si assume un incarico pubblico non si diventa padroni di esso, quale che sia la misura del consenso popolare ricevuto (ovviamente se si tratta di un incarico elettivo”, perché la Repubblica appartiene a tutti i cittadini, a quelli di oggi e a quelli di domani ed è quindi “un dovere ineludibile tenerne conto tanto più se si intendono attivare processi di riforma che investono le stesse istituzioni”.

Ecco, mi piacerebbe sentire Giorgia Meloni dire al Parlamento e tramite il Parlamento all’Italia intera, “nel tempo che mi è concesso io sarò la voce di tutti, quella che chiede pace e unità, che invoca giustizia, che non lascia indietro nessuno, che costruisce ponti, che cerca soluzioni ai problemi…”. Domenica, nel consueto Angelus, al nuovo governo papa Francesco ha augurato di essere testimone di “pace e unità”, di lavorare “per la pace sociale, che non significa – ha spiegato – la ricerca di un’utopica assenza di tensioni e contrapposizioni”, ma piuttosto ricerca di “dialogo con tutti (specie con chi è più lontano su valori e programmi) e impegno “nella composizione degli interessi di parte per il conseguimento di un bene maggiore”, quel “bene comune” per il quale vale la pena spendersi sempre, vivendo la politica come “forma più alta della carità”, magari senza dimenticare che “la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora”.

Ripeto: mi piacerebbe sentire la Meloni dire con mitezza quel che deve dire senza pretendere che tutti corrano a lodarla e ad abbracciarla. Soprattutto perché, in fondo, lei possiede la maggioranza, ma non ancora l’intero.

 

LUCIANO COSTA

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