Attualità

Discorso alla città e alle città

Pensando ai milioni di italiani in vacanza che fanno notizia (stagione dello sci, città europee, isole da sogno, aeroporti affollati, treni pure…) mi sono chiesto perché quelli che restano a casa loro non fanno notizia. La risposta l’ho trovata vaga e annoiata nel procedere delle abitudini giornalistiche-mediatiche secondo le quali non può esistere ponte o festività senza che abbiano un corollario di pagine dedicate. Insomma: è più comodo parlare di piacevolezze della vita che di problemi che ci sono e che restano appiccicati alla pelle della gente comune. E i giornali e i media si adeguano. Così, l’immagine dominante è quella che ci vuole tutti, ma proprio tutti, allegri e sorridenti, cioè in vacanza: chi può lontano da casa, chi non può tra vie e piazze di città e paesi in cerca di opportunità che consentano di fare regali e regalini senza svenarsi. Ma è un’impressione: la città e le città vivono infatti altre esperienze e giorni che poco assomigliano allo svago. Ed è a queste città che oggi propongo di leggere quel tradizionale “discorso alla città” che l’arcivescovo di Milano pro-tempore (che oggi si chiama Mario Delpini) è invitato a pronunciare in occasione della festività di sant’Ambrogio. Quest’anno il discorso dell’Arcivescovo ha messo al centro una domanda che non ammette mezze risposte. Questa: “E gli altri?”. Del “discorso alla città” di quest’anno 2022 che ormai volge al termine ho fatto sintesi, salvando però ogni enunciato e ogni riflessione. Buona lettura. (Luciano Costa)

E gli altri?

Con il passare degli anni trovo sempre più insopportabile il malumore. Trovo irragionevole il lamento. Trovo irrespirabile l’aria inquinata di frenesia e di aggressività, di suscettibilità e risentimento. Perciò anche in questo momento solenne e in questa congiuntura singolare io vorrei dire le parole che mi sono più congeniali e condividere i sentimenti più profondi. Vorrei dire che il linguaggio di Milano e di questa nostra terra è la fierezza di poter affrontare le sfide, è la generosità nell’accogliere e nel condividere, è la saggezza pensosa che di fronte alle domande cerca le risposte, è la franchezza nell’approvare e nel dissentire, è la compassione che non si accontenta di elemosine ma crea soluzioni, stimola a darsi da fare, inventa e mantiene istituzioni per farsi carico dei più fragili.

Ciò che è onesto, è utile; e ciò che è utile, onesto. E, al contrario, ciò che non è utile è sconveniente; e ciò che è sconveniente non è utile. Allora, voglio fare l’elogio dell’inquietudine che bussa alle porte della paura.

La paura serpeggia nella città e nella nostra terra: è la paura di difficoltà reali che si devono affrontare e non si sa come; è la paura indotta dalle notizie organizzate per deprimere, per guadagnare consenso verso scelte d’emergenza, senza una visione lungimirante; è la paura dell’ignoto; è la paura del futuro. La paura induce a chiudersi in sé stessi, a costruire mura di protezione per arginare pericoli e nemici, ad accumulare e ad affannarsi per mettere al sicuro quello di cui potremmo aver bisogno, “non si sa mai”. Alle porte della paura bussa l’inquietudine con la sua provocazione: e gli altri? L’antico segno della civiltà imponeva un criterio: “prima le donne e i bambini”, cioè: prima devono essere messi in salvo quelli che non possono salvarsi da soli. Si è smarrito il segno della civiltà?

Voglio fare l’elogio dell’inquietudine che bussa alle porte dei sogni che la città coltiva e realizza, la città che corre, la città che riqualifica quartieri e palazzi, la città che fa spazio all’innovazione e all’eccellenza, la città che seduce i turisti e gli uomini d’affari, la città che demolisce le case popolari e costruisce appartamenti a prezzi inaccessibili.

Alle porte della città bussa l’inquietudine e la sua provocazione: e gli altri? Dove troveranno casa le famiglie giovani, il futuro della città? Dove troveranno casa coloro che in città devono lavorare, studiare, invecchiare? Voglio fare l’elogio dell’inquietudine che bussa alle porte dei centri di ricerca dedicati all’organizzazione del lavoro che controlla la produttività e ignora gli orari della famiglia, che controlla l’ottimizzazione delle risorse e ignora la qualità di vita delle persone, che prepara strumenti per valutare la sostenibilità ambientale e ritiene secondaria la sostenibilità sociale.

Alle porte dell’organizzazione del lavoro bussa l’inquietudine e la sua provocazione: e gli altri? Come potranno vivere quegli onesti lavoratori che si ritrovano a fine mese una paga che non copre le spese che la vita urbana impone loro?

Voglio fare l’elogio dell’inquietudine che bussa ai palazzi dove si decidono i rapporti con gli altri Stati e si decidono le misure da adottare per gestire i destini dei popoli e i fenomeni migratori per rassicurare i cittadini e ridurre i fastidi. Ai palazzi del potere bussa l’inquietudine e la sua provocazione: e gli altri? Come si può giustificare un sistema di vita che pretende il proprio benessere a spese delle risorse altrui? Come si può immaginare una civiltà che si chiude e muore e lascia morire popoli pieni di vita?

Faccio l’elogio dell’inquietudine perché mi faccio voce della comunità cristiana, della tradizione europea e italiana, della lungimiranza sui destini della civiltà occidentale e, d’altra parte, non ho la pretesa di giudicare sbrigativamente o di disporre di ricette risolutive. Elogio l’inquietudine perché pensieri, decisioni, interventi siano attenti alla complessità e là dove sembra produttivo e popolare essere sbrigativi e semplicisti, istintivi e presuntuosi, l’inquietudine suggerisca saggezza e disponibilità al confronto, studio approfondito e concertazione ampia, per quanto possibile.

… L’inquietudine non è un’inclinazione depressiva che può paralizzare il pensiero e l’azione nell’incertezza e nello scontento. È piuttosto un rimedio per contrastare la soddisfazione narcisista che si assesta in un egocentrismo rovinoso. Il confronto con “gli altri”, l’ascolto del gemito, la costruzione di rapporti fondati sulla stima, sull’attenzione, sulla riconoscenza, sono fattori di quell’umanesimo realista che rende desiderabili la convivenza civile e i rapporti tra i popoli.

L’inquietudine e il realismo sono le tracce della speranza che è stata seminata nella vicenda umana. Infatti, senza una speranza non si può vivere né si può desiderare di generare vita, di costruire il futuro, di sostenere le fatiche e di celebrare le feste. (…)

Voglio perciò fare l’elogio del realismo della speranza che… non si costruisce sulle proiezioni delle statistiche, sulle previsioni degli intellettuali, sulle ideologie. C’è una parola affidabile che rivela che la vita è promettente, che non siamo destinati al nulla, che non siamo una presenza insensata in un universo insensato, ma siamo persone uniche, con una originalità irripetibile, con una vocazione che ci autorizza ad avere stima di noi stessi e ci chiama a mettere a frutto i talenti ricevuti per il bene di tutti.

Voglio fare l’elogio del realismo della speranza che riconosce la vocazione alla fraternità iscritta in ogni vita umana. Il realismo della speranza smaschera l’illusione dell’individualismo… La vocazione alla fraternità è la condizione di sopravvivenza dell’umanità e costruisce progetti di futuro perché condivide la fiducia che la vita sia creata da una promessa. Infatti, la solidarietà, pur decisiva nel nostro tempo, è il principio di organizzazione sociale che consente ai diversi di diventare uguali; mentre la fraternità è il principio di organizzazione sociale che consente agli eguali di essere diversi, cioè unici e irripetibili.

Il realismo della speranza rende desiderabile che continuino a nascere da un papà e da una mamma bambini e bambine, che siano circondati da ogni cura e introdotti nella vita come promessa di futuro. Voglio perciò fare l’elogio del realismo della speranza che consente di affrontare l’emergenza educativa, il disagio delle giovani generazioni evitando di ridurre il tema in limiti troppo angusti.

… La responsabilità degli adulti è e diventa quella di praticare il realismo della speranza.

Voglio fare l’elogio del realismo della speranza che consente di affrontare la tutela della salute e il prendersi cura nelle situazioni limite della malattia.

Voglio fare l’elogio del realismo della speranza per incoraggiare la riflessione e la pratica di quei tratti che caratterizzano la nostra città, il nostro territorio… Il realismo della speranza convince a costruire rapporti che non si limitino al dare e all’avere, al vendere e al comprare, ma diventino alleanze, interesse per il bene reciproco, rispetto per tutti gli ambienti, onore per tutte le culture. Le esperienze disastrose delle guerre convincono dell’assurdità dei conflitti e dell’insensatezza di considerare nemiche persone con cui si è lavorato e collaborato in modo così costruttivo. Le esperienze disastrose di imprese di rapina che saccheggiano territori e riducono popoli in condizioni di schiavitù e di miseria devono suscitare una opposizione determinata dalla persuasione che o si cresce insieme o si perisce tutti.

Voglio fare l’elogio del realismo della speranza per incoraggiare il pensiero e l’azione a interpretare la vocazione della nostra terra alla solidarietà. … È necessario però riconoscere ed evitare di praticare la “generosità del superfluo” o “degli avanzi”.

Voglio fare l’elogio del realismo della speranza che interpreta i rapporti tra le nazioni come condizione necessaria per rendere abitabile il pianeta e promettente il futuro.

C’è bisogno del realismo della speranza: chi ha responsabilità, infatti, deve guardare lontano. La popolarità o l’interesse, il prestigio o il vantaggio personale sono guadagni troppo meschini e troppo improbabili per motivare un impegno quotidiano spesso logorante e poco confortato da risultati.

Si deve affermare che la cura per il bene comune, oltre il proprio interesse o l’interesse del proprio partito, l’impegno che trova motivazione nell’inquietudine e nel realismo della speranza si chiamano “politica”.

Voglio perciò fare l’elogio della politica, di questa politica.

Voglio fare l’elogio della politica che si esprime nella democrazia rappresentativa…

Voglio esprimere apprezzamento e incoraggiamento per tutti i cittadini che in questa politica si impegnano… Voglio fare l’elogio della partecipazione che non si accontenta di esprimere il voto per il proprio partito e il proprio candidato, ma che discute, ascolta, offre le proprie idee, pretende supporto per le forme di aggregazione e di presenza costruttiva nel sociale per prendersi cura degli altri, soprattutto di quelli che non contano, non parlano, non votano.

Voglio fare l’elogio di un sistema che dà agli eletti il mandato di prendersi cura del bene comune… Voglio fare l’elogio della politica che, volendo rappresentare tutti, si prende cura di chi è più fragile e bisognoso e − disponendo di risorse limitate − considera in primo luogo i servizi più necessari e coloro che non hanno risorse: i disabili gravi, gli anziani soli, le famiglie in povertà.

Ho infine una domanda da porre alla città, a questa, a qualunque altra città dell’uomo: e gli altri?

Si potrebbe dire: «E gli altri: chi sono?». Sono la nostra inquietudine, sono interlocutori e annunciatori della nostra speranza, sono chiamati a essere il “noi” che si governa nelle istituzioni democratiche.

Voglio fare l’elogio e dire parole di incoraggiamento e di benedizione per voi che, incontrando i problemi e le ferite, non perdete troppo tempo a domandarvi: «Di chi è la colpa?» e piuttosto vi chiedete: «Che cosa posso fare io per medicare le ferite e affrontare i problemi?».

Voglio fare l’elogio di voi che, incrociando le persone, non girate la faccia dall’altra parte, desiderando di non essere disturbati, e piuttosto sorridete e salutate e ascoltate, perché queste persone sono la vostra gente.

Voglio fare l’elogio di voi che sapete che cos’è il bene comune e lo servite.

Monsignor MARIO DELPINI

Arcivescovo della Diocesi di Milano

Altri articoli
Attualità

Potrebbero interessarti anche