Otto giorni di anno nuovo e tutto, ma proprio tutto, sembra già vecchio. Oggi come ieri, infatti, la politica langue adagiata su un piedistallo di cristallo, lì per esibirsi piuttosto che per costruire intese e promuovere il bene comune; le beghe-beghine-beghette-begone tra politicanti sussistono e si alimentano di sempre nuovi motivi di scontro; la paura dell’epidemia non ancora sopita, anzi pronta a rimettere tutto in subbuglio, è palese nonostante la spensierata attitudine vacanziera che induce ad assembramenti e ammucchiate che nulla o assai poco hanno di normale; la guerra è parte del giorno (basta una televisione accesa ed ecco che l’eco delle bombe e dei missili è pronto a dirti e a confermare che la stupidità umana genera mostri); la Pace è in marcia, cammina, invade vie e piazze, abbraccia persone di qualunque età, censo, colore, credo…, persone ricche o povere non importa, che la Pace è un bene che non costa soldi, chiede solo fatica e impegno per renderla visibile e stabile, di tutti e per tutti. Poi… Poi, il mondo con le sue contraddizioni, quelle cosiddette grandi potenze che di grande hanno la prosopopea ma non l’umiltà e la capacità di impedire soprusi-ingiustizie-abusi-guerre-esecuzioni-violenze-negazioni di diritti… e di favorire invece libertà-democrazia-benessere-civiltà-istruzione-cure-giustizia-pace-pace-pace. Poi… Poi quel che la cronaca racconta: la morte di un Papa Emerito che ha segnato la storia, che ha messo ragione e fede su un piano di ricerca reciproca piuttosto che sul semplicistico contrasto, che ha mostrato la sua fragilità scegliendo di restare con la veste bianca ma senza altra pretesa se non quella di servire, che fino all’ultimo respiro ha costruito ponti per accorciare la distanza tra il Cielo e la Terra…; la morte di sportivi eccellenti, osannati fino a farli diventare numi e idoli, senza concedere loro il rango di amici e interpreti di una frangia forse felice e spensierata dell’umana avventura; il ritorno a casa di un vescovo (Pierantonio Tremolada, vescovo della Diocesi Brescia, quindi anche di questo spazio informativo che sopporta e supporta il consueto domenicale) dopo lunghi mesi di malattia trascorsi con mitezza e coraggio davvero ammirevoli…
Poi… Poi le solite, e forse anche insolite, cose, di cui si alimenta lo scritto domenicale. Ieri, per esempio, l’Oracolo mi ha ricordato che sebbene non sembri possibile “tutto è nel colmo della perfezione e la capacità umana nel maggiore…”. Perciò, “maggiori requisiti si richiedono oggi a formare un savio che anticamente a formarne sette, e maggiore capacità occorre, ai giorni nostri, a trattare con un sol uomo che, nei tempi passati, con un popolo intiero”. In aggiunta, dispettosamente, m’ha rammentato l’importanza di “ingegno e sentimento”, che secondo lui “sono i due poli del sole della reputazione umana: l’uno senza dell’altro è felicità a mezzo”. Vale a dire: “Non basta la forza dell’ingegno, si richiede anche la sensibilità dell’animo”, soprattutto perché “l’infelicità dello sciocco consiste nello sbagliare la scelta del modo di vivere, della professione, del paese e delle amicizie”.
Ovviamente, avrete capito che il nodo sta al collo della politica e dei politicanti… Infatti, nel gran guazzabuglio della politica nulla è stabile e tutto, invece, è labile. Dunque, non v’è certezza se non quella del capo. Una volta questo capo possedeva carisma, adesso va già bene se possiede nozioni da mettere vista. Prima c’era il Partito – entità di riferimento, secchio a cui ciascuno poteva attingere, idea da condividere e amare, idealità su cui investire, luogo finalizzato a trovare un punto d’incontro piuttosto che di scontro -; adesso c’è il gruppo – ubbidiente al capo, raramente disposto a condividere i rischi della rappresentanza, molte volte strampalato, assai spesso utilizzato come grimaldello contro i fantasmi degli oppositori -, semplicemente buono per ogni evenienza. Ieri salutavo gioioso “il nuovo che avanza”; oggi saluto pensoso “il vecchio che manca”. Domani proverò a rottamare i residuati di un passato politico che disturba e turba; dopodomani dirò che rottamare non è il massimo, che forse basta dargli una ripassata. Fra trentadue giorni, chiamato a votare per il rinnovo della Regione cui appartengo (la Lombardia) dove metterò quella “x” che inoppugnabilmente determina chi e come dovrà governare? Qualcuno dirà che lui s’è turato il naso e ha messo la “x” a casaccio; quindi, lui, di sicuro, non avrà rimorsi. Quella volta che Indro Montanelli dichiarò che avrebbe votato DC turandosi il naso essendo quello il male minore, trovò a Brescia un Martinazzoli pronto a rispondergli che già che c’era “poteva turarsi anche la bocca”. Chi risponderà, adesso, a quelli che al voto ci andranno col naso turato? Chi spiegherà a costoro che adesso è tempo di avere il coraggio di scegliere e non più quello di lasciar scegliere ad altri ciò che tocca a ciascuno? Non vedo suggeritori all’altezza della situazione; invece, vedo tantissimi venditori di fumo, altrettanti manipolatori di carte e parole e, ahimè, assai pochi disposti a profferire pensieri permeati di buone intenzioni e orientati soltanto alla verità.
Ma, che cosa è la verità, soprattutto adesso che è già tempo di campagna elettorale? Un giovanotto di quarta liceo, sollecitato a rispondere, ha detto che “la verità al tempo delle elezioni è una bugia rivestita da ninnoli gustosi: la guardi, ma per evitare cattive sorprese non la scopri”. Gli amici hanno applaudito; uno ha azzardato un timidissimo “mi sembra non si debba fare di tute le erbe un fascio”, che voleva più o meno dire “tocca a noi decidere dove abita la verità”; un altro ha gridato che “è semplicemente stupido pretendere verità da chi fa politica”, essendo risaputo che “fare politica è mettersi al soldo della bugia”; una ragazza, con pacata leggerezza, dopo aver tacciato gli amici di “disimpegno totale nei confronti di qualsiasi cosa che non sia danaro, divertimento e sesso”, ha sentenziato che “noia e politica sono farina dello stesso sacco: una deprime, l’altra opprime” e che “non c’è verità che le possa redimere”. Un giorno del Sessantotto, anno di rivoluzioni rumorose di cui serbiamo ceneri e scheletri ancora ingombranti, quando per vincere la noia si inventavano slogan e si rivendicava libertà di “urlo, fumo e sesso”, Leo Longanesi provò a mettere in guardia i giovani dal pericolo di sprofondare insieme a tutto ciò che per loro era magari utile far sprofondare, semplicemente affermando che “la noia segue l’ordine e precede la bufera”. Aveva così evidente ragione, che nessuno lo ascoltò.
Consegue la solita domanda: a distanza di cinquantaquattro anni da quel “sessantotto” pieno di illusioni e di attese siamo ancora di fronte alla noia che segue l’ordine e che fa da apripista alla bufera? Forse sì, o forse è solo un’impressione. Vale a dire: è un tempo che si lascia illuminare dalla rete, ma che non vede il buio che s’avvicina; che chiede verità, ma che poi beve qualunque cosa gli venga gridata in faccia; che invoca “buona politica” al servizio della gente, ma che la politica la fa “a caso”, cioè secondo il classico pressappoco, un tanto per uno fa male a nessuno, come facevano le vecchie zie petulanti e pie coi rispettivi nipoti.
Ieri si metteva a ferro e fuoco la politica per scardinare il sistema; oggi il sistema, sopravvissuto al ferro e anche al fuoco, scardina la politica e la consegna a “birbanti senza arte né parte”, però capaci di vendere bugie facendole apparire verità. Ci vorrebbe un antidoto. Per esempio, andrebbe a meraviglia una massiccia dose di “buon senso”, quello che secondo Cartesio (al secolo René Descartes) “è la cosa meglio distribuita nel mondo poiché ciascuno pensa d’esserne così ben provvisto che anche coloro che più difficilmente si accontentano di ogni altra cosa non sogliono desiderarne più di quel che ne hanno”, che viene dall’esperienza “anche se l’esperienza la fai quando non hai buon senso”.
Con poco “buon senso” affido al domenicale riflessioni che forse disturbano, fanno soltanto sorridere oppure soltanto incavolare. Nel suo “dizionario delle idee”, un giorno già lontano Valeria Boldrini spiegò che siccome “ciascuno appartiene soltanto a sé stesso”, esso “non deve rendere conto ad alcuno dei propri comportamenti e per le proprie scelte”, almeno fin quando non incrocia quei “riferimenti morali”, che “pur negando quelli già appresi, non possono scomparire…”, perché in fondo, noi “apparteniamo ai desideri che muovono l’azione e alle speranze per il futuro da costruire”. Vero, verissimo. Ma chi lo spiega alla politica e ai politicanti in cerca di voti che così deve essere, che questa e non altra è la verità?
Lo potrebbe fare il popolo (che di sicuro è meno bue di quel che vogliono far credere certi soloni dell’effimero) se e quando fosse messo nella condizione di sapere il vero piuttosto che il falso, il buono invece del gramo e dell’orrendo, il bello al posto di musi duri e facce arrabbiate. Lo potremmo fare io e voi, insieme, abbandonando il relativismo (vizio che metteva in dubbio l’esistenza stessa di una verità) e qualunque cosiddetta post-verità (una sua parente stretta, ma ancor più difficile da affrontare perché sfuggente e pervasiva), soprattutto perché la post-verità ha sempre la pretesa di essere una verità più autentica proprio perché si presenta come discorso alternativo a quello ufficiale.
Potrebbe far bene alla verità se la smettessimo di andare dove vuole il potente, orienta la pubblicità, indirizzano i profeti di sventura, sollecitano i media e avviano, senza alcuna possibilità di ritorno, i venditori di bugie. Soprattutto, gioverebbe tornare a pensare chi siamo, dove andiamo e perché orientiamo i nostri passi lì e non altrove; anche tornare a chiedersi se quel che votiamo può essere disgiunto da quel che professiamo… “Ma se resteremo inerti – scrive oggi Gianfranco Ravasi nel suo domenicale “breviario” -, non riusciremo mai a sapere quante cose belle abbiamo perso, quante possibilità abbiamo dilapidato…”.
LUCIANO COSTA