Immancabile, alle cinque della sera, il suo raglio salutava l’ombra che arrivava a coprire di grigio il verde che ancora resisteva. “E’ lui – gridavano i ragazzi del calcetto –, è proprio lui, l’asilo intelligente che credendosi un orologio ricorda che il tempo dei giochi sta finendo”. L’asino non lo sapeva, ma i ragazzi, benché lo ritenessero una sottomarca del cavallo (uno lento e metodico, l’altro baldanzoso e bizzoso), lo ammiravano e non di rado lo consideravano un loro parente, magari lontano e poco nobile, ma comunque gradito. D’altronde, almeno in quel tempo, non era fuori norma sentire un maestro-professore-docente dare dell’asino allo scolaro-studente-allievo che pur sapendo tutto, ma proprio tutto, di lucertole e nidi, nulla o quasi nulla sapeva di lettura, aritmetica, calcolo, storia, geografia e buona educazione. Quindi, l’asino che alle cinque della sera alzava il raglio al cielo per avvertire i ragazzi dell’approssimarsi della fine dei giochi, non era un intruso, ma l’amico ritrovato che ragliando e tartagliando diceva che oltre il gioco c’era altro a cui dedicare attenzioni.
Altri tempi. Oggi un asino che raglia è una rarità riservata alla vecchia cascina rurale (che adesso tutti chiamano “fattoria didattica” come se chiamarsi cascina fosse un disonore…) o alla baita di montagna (che adesso ha sempre più l’aspetto di un elegante chalet), magari a un giardino bizzarro di qualche bizzarro cittadino. Però, se ai pargoli viene offerta l’occasione di avvicinarsi all’asino, è festa grande. L’asino offerto alla meraviglia dei piccoli, infatti, è visto come alternativa all’ovvietà che vuole tutti belli–agili–veloci-vispi–acuti–mansueti-intelligenti...In più, ecco l’asino lavoratore indefesso e umile, cocciuto assertore della sua utilità benché sia chiaro che, come tanti altri quadrupedi, anche lui diverrà carne da macello. Ciò nulla toglie al valore della cocciutaggine interpretata e portata a spasso dall’asino, la quale “può essere un merito, ma può anche diventare una fastidiosa iattura…”, soprattutto quando viene ridotta ad “asinaggine” o “asinata”, nel qual caso potrebbe essere intesa qual forma di intelligente cocciutaggine “ammesso naturalmente che si sia disposti a credere che nell’essere cocciuti, determinati oltre l’eccesso, ci sia talvolta qualcosa di intelligente”.Quindi, “somigliare all’asino sarà allora un vantaggio o un affare poco conveniente?”. Dipende. Secondo Montaigne, arguto raccontatore di cani, gatti, cavalli e animali vari, “l’ostinazione e l’accalorarsi su un’opinione è la più certa prova di stoltezza”. Ciò non toglie che possa forse esistere “qualcosa di sicuro, deciso, sdegnoso, contemplativo, grave e serio come l’asino”, che se poi è anche contemplativo, di certo possiede, sempre secondo il citato affabulatore, una “natura riflessiva e meditabonda che lo rende un quadrupede con spiccata vocazione per la filosofia”. Ovviamente,senza offesa per i filosofi, sebbene “degli asini e dei filosofi si èsoliti pensare e parlar male”.
L’idea di mettere l’asino tra le seriosità-facezie-notizie-note e noterelle di un “domenicale” m’è sortita leggendo “Asini e filosofi”, minuscolo ma eloquente libretto scritto nel 2010 (appena undici anni fa e allora pubblicato grazie a “interlinea edizioni”), da Francesca Rigotti (docente all’università della Svizzera Italiana) e da Giuseppe Pulina (insegnante di filosofia e di antropologia filosofica a Tempio Pausania), forse per gioco o forse per dar peso e sostanza alla “filosofia dell’asino”, magari intesa “non come dottrina del pensiero di tale animale, bensì come tipo di riflessioni che l’asino ha suscitato e suscita nel filosofo”, di professione o anche solo d’occasione. Bella e piacevole lettura, ve l’assicuro, ricca di elementi che inducono ad andare oltre, addirittura fino a definire chi oggi, anno 2023, potrebbe essere considerato asino o somigliante all’asino. Per esempio: chi potrebbe essere il novello asino di Buridano, proprio quello che non sapendo a quale mucchio di fieno cibarsi, contemplando e aspettando morì di fame? E chi mai potrebbe essere il Pinocchio con orecchie d’asino assegnategli dalla fata come premio alla sua indolenza al sapere e al saputo? E chi potrebbe assomigliare all’asino di Zarathustra, emblema della durezza della vita, temprato dal grave carico che porta e che lo rende altrettanto duro, addirittura “ancor più asino” sebbene “tutto ciò non lo abbrutisce”e neppure lo impensierisce? Forse io stesso, o forse quei dieci-cento-mille-centomila che pretendono udienza (son politici e siedono in alto, oppure sono prototipi costruiti a immagine del più insulso umano vanesio e ignorante, o forse sono soltanto uomini e donne illusi di possedere autorevole autorevolezza dell’autorità…) pur sapendo d’aver nulla di sapiente da comunicare. Ieri ho sentito un tale che al mondo diceva “la terra non gira, o asini che altro non siete”; poi un altro che dicendo “mettete dei fiori nei vostri cannoni” indicava la via per porre fine alle guerre; e ancora un altro che avendo come me letto “Asini e filosofi” fino all’ultimissima pagina, chiedeva ad alta voce se: “Qual cosa delle due è più degna: che un uomo inasinisca, o che un asino inumanisca?”. Ai posteri l’ardua sentenzia!
Per adesso, qui e subito, m’illudo che l’odierna tornata elettorale(che per caso coincide con la festa della mamma) regali a questa o quella città cittadina o paese un sindaco diverso dal solito, magari un sindaco che prima di essere sindaco è mamma. L’idea, balzana, m’è venuta leggendo che essendo “il sindaco il risultato di tante croci segnate dai votanti sulla scheda elettorale” diventa “facile pensare che i votanti, uomini e donne di giusta età, le gettino sulle spalle di una mamma”. Don Giovanni, nel suo diario minimo, dice un sindaco siffatto, essendo mamma “avrà tutta la pazienza della mamma a compatire quelli che non capiscono e anche quelli che capiscono troppo, i super–lavoratori e i pigri, i conservatori e i progressisti, gli artisti e i poeti, i cronisti e gli economisti. Una madre, infatti, compatisce tutti: quelli che seccano di giorno e quelli che disturbano di notte, quelli che hanno fame e quelli che mangiano troppo, quelli ai quali manca l’acqua e quelli che vogliono solo vino, quelli che amano gli orti e quelli che cercano la piazza, quelli che attendono l’uovo dalle galline e quelli che lo vogliono dai… turisti o villeggianti. Perché la mamma deve saper sorridere a chi pesta i piedi come a chi batte le mani, a chi tiene il broncio come a chi è riconoscente, a chi si lava e a chi non si pulisce il naso. Però, attenti: non abusiamo di questa capacità della mamma! Tremila o diecimila o duecentomila figli so no troppi per una madre moderna, in questi tempi, dove la limitazione delle nascite (un vero e proprio inverno demografico, dico io) è diventata regola generale”.
Nell’attesa, eccomi di fronte alla tenda che nella mia città, da piùdi un anno dice a chi passa che lì albergano i tanti o pochi che il “depuratore” dei reflui da lor medesimi emessi non lo vogliono dove loro abitano, ma appena al di là del loro ambito di residenza.Forse hanno ragione o forse hanno torto: ma chi può stabilire, in materia così sottile e così carica di odori, il confine tra ragione e torto? Per aver cercato di definire torto e ragione, ad esempio, il mio amico Gianluca, stimato presidente di un consorzio deputato alla gestione delle acque, ha perso la cappa. Io, per adesso, ho perso solo la capacità di intravedere dove stiano torto e ragione se in ballo non c’è il prevalere di qualcuno sull’altrui diritto, ma solol’affermazione del bene comune? Però, mi ha spiegato ieri un vecchio cultore di un “come eravamo” ormai dimenticato, la sensibilità umana è in forte aumento. Lo proverebbe il fatto, raccontava, che almeno cinquanta persone hanno deciso di far causa al fornaio, non per la qualità del pane ma per l’odore del pane stesso. Niente di nuovo. Qualche decina d’anni fa un tale, di fronte allo stesso problema, spiegò che gli arrabbiati insofferenti all’odore del pane non pretendevano che il pane non avesse odore, ma solo che il suo odore non invadesse le loro case. Che fare? Certo il fornaio non poteva chiudere ermeticamente l’odore del pane dentro la sua bottega… Quindi: prendere o lasciare. Però, nessuna delle persone poteva certificare l’esistenza della sua allergia col dovuto referto del medico curante. “E così – raccontava quel tale – il pretore incaricato di raccogliere le denunce e di giudicare ebbe buon gioco per assolvere il fornaio e permettergli così di continuare il suo lavoro”. In più, asseriva il pretore nella sua sentenza assolutoria, il fornaio cuoceva il pane in quel luogo da più di trent’anni senza causare vittima alcuna… Tutt’al più l’odore poteva aver causato solletico, che sicuramente dà un minimo di fastidio, ma che non è mai pericoloso”. Fine della commedia. O no? Quel tale dice che i cinquanta denuncianti se la presero col pretore e con la sua incapacità di vedere che all’odore del pane in uscita non corrispondeva l’uscita dalla bottega del fornaio dell’odore dei soldi guadagnati… Poveretti, non s’erano accorti che i soldi non hanno odore e che, dopo tutto, il pretore aveva semplicemente raccomandato di avere pazienza…
La morale della favola costretta a stare in un misero “domenicale”è sempre la stessa: occorre molto coraggio per sopportare sia l’infinito poeticamente descritto da un qualsiasi Leopardi, sia l’immensità dello spazio che turba lo scienziato e che circondauna qualsiasi sentenza. Per non dire della pazienza che serve per ascoltare politici in libera uscita parlare di tutto sapendo di non aver nulla da dire. Spero un sindaco mamma, un pane che abbia buon odore e un lettore che m i mandi, benevolmente, a quel paese.
LUCIANO COSTA