Il Domenicale

Oh, i bei rami d’ulivo! Chi ne vuole?

Se interessa, questa che inizia è la settimana delle settimane: santa per tanti, normale per altrettanti, speciale per pochi, tragica per chi è costretto a stare dentro le guerre che ormai così numerose e così diffuse sulla terra, rendono obbligatorio parlare di un’unica grande guerra che tutto avvolge e sconvolge. Purtroppo, sarà niente più e altro che una settimana di ordinaria follia, una settimana in cuiparleranno le armi, urleranno i feriti, taceranno i morti, pregheranno i miti e umili di cuore che insieme ai pacifici e ai misericordiosi andranno per vie e piazze chiedendo al Cielo di mostrarsi finalmente avvolto con i colori della pace. Sarà anche la settimana che ricordando la crocifissione e morte di Gesù di Nazareth, il Giusto per eccellenza, proporrà all’umanità domande inquietanti ed essenziali: sei dalla parte della pace o della guerra? coltivi la pace o alimenti la violenza? consideri gli altri come consideri te stessa o gli altri per te sono solo merce ingombrante? sei figlia unica e bella di questa Terra altrettanto unica e bella o sei estranea a chiunque non ti assomigli?  che cosa fai per annullare il divario tra chi ha troppo e chi ha troppo poco? sei cosciente che lo sviluppo dei popoli non diverrà “bene universalese prima non sarà adattato a tutti e a ciascuno? quali favori chiederai oggi al Cielo, al tuo Dio, al Dio degli altri, al Signore da cui dipende il succedersi dei giorni? Se invece non interessa,considerate la settimana che inizia una semplice ripetizione di quelle che l’hanno preceduta: buona grama amara radiosa orrenda invivibile, ricca povera utile inutile rossa nera verde bianca azzurra vacanziera feriale stanziale maledetta benedetta sana ammalata inguardabile avvenente gustosa succosa…. Fate voi, che tanto, comunque la guardiate, non cambierà indirizzo e rimarrà una semplice settimana dell’anno 2024, buono se buono orrendo se orrendo…

Però, semmai nell’animo restasse un angolo inesplorato di serenità, immaginate vostra la tenerissima e forse puerile poesia con cui Giovanni Pascoli salutava la sua domenica degli ulivi o delle palme (proprio come quella che oggi il via alla settimana delle settimane). Diceva: Oh, i bei rami d’ulivo! / Chi ne vuole? / Son benedetti, li ha baciati il sole. / In queste foglioline tenerelle / vi son scritte tante cose belle. / Sull’uscio, alla finestra, accanto al letto / mettete l’ulivo benedetto! / Come la luce e le stelle serene: / un po’ di pace ci fa tanto bene.

Illuso era il poeta, illuso son io che ripeto i suoi versi, illusi son coloro che leggendo si commuovono, illusi sono quelli che non ammettono illusioni se non quelle da loro medesimi inventateMa illusi e beoti all’incontrario sono poi coloro che non leggendo poesie sognanti e puerili, non vendendo altro se non quello che piace e accomoda il proprio star bene e non sentendo altro suono che quello prodotto dalle loro bocche di certo non avvertono le grida che sorgono dalle terre in cui regnano odio e violenzaCosì, aspettando giorni nuovi, domina l’orrore, che pur vestendo panni ogni volta diversi rimane sempre lo stesso… Null’altro che orrore: ribrezzo ripugnanza raccapriccio paura spavento terrore brivido tremito… cosa brutta orrenda orribile spaventosa… schifo schifezza schifenza mostruosità oscenità… Qui e adesso non c’è infatti panorama che al suo interno non contempli l’orrore. E se qualcuno vi regala una cartolina che suscita ammirazione fascinosuggestione meraviglia e sospiri, sappiate che è finta, che viene non dall’aldiquà ma da un aldilà sconosciuto, talmente tanto sconosciuto che localizzarlo e dargli un indirizzo è pressoché impossibile. In questo mondo sempre più simile all’incontrario che al dritto, piaccia o dispiaccia, io e voi ci siamo e restiamo almeno fin quando ci sarà concesso di restare…

Ripenso allora a quel che sono stato e siamo stati.

Cose di ieri: quando al mio paese le catene rimosse dal camino in un turbinio di fuligine che rendeva tutti abbronzati, venivano consegnate ai ragazzi perché le trascinassero su strade polverose fino a farle diventare argentee, pronte a ritornare dove erano state, perfettamente lucide e degne, anche loro, di far parte della settimana che portava alla Pasqua. Però, quelle catene lustrate, non svelavano liti e dispetti consumati nel bel mezzo del lodevole impegno. Per esempio, non dicevano che, come al solito, al confine del paesello. magari appena sfiorato da catene nemiche, la baruffa incentrata sui diritti vantati era d’obbligo almeno quanto lo era, subito dopo e per la semplice ragione che i contendenti dovevano essere puntuali alle celebrazioni della Settimana Santa – tante, lunghe, belle la loro parte ma anche capaci di mettere a dura prova fede e pazienza del popolo più giovane e, quindi, men che meno aduso alle orazioni – siglare la rappacificazione invariabilmente racchiusa in un “ci rivedremo” che più di un augurio aveva in sé la potenza di un rimando a nuovi scontri. Poi, ben convinti che l’acqua del sabato santo, che il prete benediva in chiesa ma idealmente ovunque essa sgorgasse, era il tramite tra il vecchio e il nuovo, tra ciò che eravamo e ciò che eravamo invitati a diventare, tra il male e il bene, tra la perdizione e la gioia, tra i patimenti della quaresima e la magnificenza della Pasqua, si tentava, semplicemente e testardamente, di provare a essere felici. Ed allora, credetemi, bastava poco per esserlo: un sorriso, una fetta di ciambella, un posto alla tavola della Maria, i giochi sull’aia, la perdonanza accordata alle precedenti marachelle, la certezza di far parte di una grande unica famiglia in cui il poco o il tanto veniva assaporato e gustato insieme. Così, siccome era Pasqua e la contrada, ansiosa di vivere il tempo nuovo annunciato dal prete, si vestiva a festa e metteva in bella evidenza ciò che le mani fatate di mamme e zie erano riuscite a cucinare, le contese passavano in secondo piano mentre le intese mangerecce e goderecce potevano facilmente cantare vittoria. Allora le uova erano ancora di gallina e non di cioccolato, le colombe volavano libere e felici preoccupandosi non di essere soffici e profumate ma soltanto di condividere svolazzi e giochi coi fiori del ciliegio, il capretto gioiva accanto alla madre incurante della moda che lo avrebbe voluto al centro della tavola, il vino senza etichetta ma leale e sincero faceva la sua parte mettendo allegria al posto delle preoccupazioni e regalando attimi fulgenti (quelli fuggentiverranno dopo, molto dopo) ai partecipanti alla festa, praticamente a tutti i contradaioli.

Cose di oggi: la campana di una chiesa chiusa e impraticabile a causa della guerra annuncia che è vicina la Pasqua, compimento della redenzione per i cristiani, semplice transito da una stagione all’altra per tanti altri, niente più di una festa messa lì per soddisfare i creduloni per coloro che si reputano tanto forti e unici da poter fare a meno di qualsiasi protezione proveniente dal Cielo, forse misterioso, eppure vero e sempre aperto al transito di grazie e benedizioni. Sì, la campana dice che fra sette giorni sarà davvero Pasqua. Però, che strana Pasqua è se al risorgere contrappone un defungere che, per il momento, non sembra ancora disposto a scendere a patti con nessuno? Direte: sarà una Pasqua così strana che non sembrerà Pasqua, soprattutto perché “quando l’uomo è smarrito, la tradizione diventa un lievito per il futuro”, nulla più di un sospiro che immagina felicità future.

Ma, tutto questo, è straordinario o semplicemente normale? Tutto normale, perché noi siamo fatti così. O no? Qualche tempo fa, chissà quando neppure non lo ricordo, a commento di chiacchiere e banalità irradiate senza vergogna e ritegno dal canale diecimila (sic, doppio sic) della televisione mondiale, mi è capitato di dire alla stanza vuota che mi ospitava: “Non vorrei sembrare il saccente, che pur sapendo un bel niente, dice a chi si crede intelligente: guarda che il mio niente, che custodisco diligentemente, lo nego al sapiente, ma lo dono al nullatenente”. Allora credevo di aver detto qualcosa di fondamentale, ma adesso, ripensandoci, mi rendo conto che era solo un insieme di rime inventate per consentire alla mia mente di andar per prati a raccogliere margherite, che quando è Pasqua son davvero esageratamente belle e tante. Intanto, la festa incombe, si cercano colombe e uova di cioccolato, si assicurano o si negano speranze e solidarietà, si levano al cielo orazioni ed imprecazioni. Tutto nella norma: si vive e si muore come in ogni altro giorno; e il fatto che adesso sia la settimana (santa, normale, benedetta, maledetta, banale o importante poco importa) che annuncia e precede la Pasqua non cambia il panorama: mezzo mondo sorride mentre l’altra metà piange e si dispera; però, il mondo intero proclama il bisogno urgente di pace e concordia, ma poi facilmente volge lo sguardo altrove

Guardo la gente che da est a ovest e da nord a sud piange e si dispera. Ripenso allora alla canzone con cui John Lennon invitava a immaginare cieli e terre di tutti e per tutti. Diceva: 

Immaginate che non ci sia alcun paradiso. / Se ci provate è facile: / nessun inferno sotto di noi / sopra di noi solo il cielo. / Immaginate tutta la gente / che vive solo per l’oggi; / immaginate che non ci siano patrie. / Non è difficile farlo. / Nulla per cui uccidere o morire / e anche alcuna religione. / Immaginate tutta la gente / che vive la vita in pace. / Si potrebbe dire che io sia un sognatore, / ma io non sono l’unico. / Spero che un giorno vi unirete a noi. / E il mondo sarà come un’unica entità. / Immaginate che non ci siano proprietà. / Mi domando se si possa… / Nessuna necessità di cupidigia o brama, / una fratellanza di uomini. / Immaginate tutta la gente / condividere tutto il mondo. / Si potrebbe dire che io sia un sognatore. / Ma io non sono l’unico. / Spero che un giorno vi unirete a noi. / E il mondo sarà come un’unica entità.

Forse è soltanto il paradiso di cui abbiamo perso l’immagine, quello fatto di alberi, di fiori, di frutta, di persone che vogliono e cercano il Bene di tutti… Elsa Morante, raccontando “Il mondo salvato dai ragazzini, scrive che l’antico adagio ama il prossimo tuo come te stesso” potrebbe essere cambiato in “ama il prossimo tuo perché te stesso”. Se abbia ragione o torto decidetelo voi.

LUCIANO COSTA

Altri articoli
Il Domenicale

Potrebbero interessarti anche