Donne più brave, però meno premiate e pagate

Una donna al Quirinale è stato il leit motive che ha accompagnato tutto il tempo che il Parlamento, per l’occasione allargato ai rappresentati delle Regioni (in tutto 1009 grandi elettori, forse con grandi idee in tasca, però impossibilitate ad uscire per mostrare il loro valore) ha dedicato al voto per l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica. E l’idea era tutt’altro che peregrina. Aveva in sé il valore di una speranza – la donna come espressione di una società di uguali -, rappresentava la maggioranza degli italiani – son più le donne degli uomini, è risaputo -, sarebbe stata la dimostrazione di una parità effettiva e non solo di parolaia e di facciata – non bastano le cosiddette quote rosa per riequilibrare, ovunque e soprattutto nel mondo della politica, il giusto rapporto tra uomini e donne -,  avrebbe concluso un iter di avvicinamento alla pari dignità e alle pari opportunità atteso e sognato da lungo tempo. Sappiamo come è andata: donne ancora in attesa e, meno male, un Uomo (da scrivere con l’iniziale maiuscola) come Sergio Mattarella, che al giusto riposo dovuto a un ottantenne dopo sette anni di impegno costante e meritorio, ha sostituito la responsabilità di accettare un nuovo mandato per impedire che il Paese naufragasse tra crisi e insipienza di troppi politici.

“La prossima volta sarà una donna a salire al Quirinale”, ha detto una veterana della politica. Speriamo. Nel frattempo sarà il caso di smetterla di parlare bene-benissimo-magnificamente-superlativamente e generosamente delle donne senza far seguire alle chiacchiere fatti concreti, che testimonino la parità raggiunta, il rispetto conquistato e a loro dovuto. Si facciano pure cortei in rosa, si invochino sempre scarpe rosse contro i violenti che le mani non le usano per accarezzare la donna ma per farle male, si aprano le porte prima a loro che ai soliti maschi, si invochi la casalinga come amica e non come serva di casa, si facciano monumenti che testimonino quanto le donne hanno dato alla società… ma poi, per favore, si vada al sodo. Vale a dire: si concretizzi quella parità salariale che da sola potrebbe fare la differenza; si garantisca alla donna la possibilità di essere madre e lavoratrice, si scrivano norme che a ciascuna donna garantiscano di essere donna e cittadina di un Paese di uguali.

Per farlo, incomincerei dall’Università, luogo del sapere e della conquista di un titolo capace di aprire le porte del mondo del lavoro. Incomincerei dal dato che dice “laureati più occupati e pagati e laureate più brave ma meno pagate”. Non è una battuta, semplicemente è quanto emerge dal rapporto “Laureate e laureati: scelte, esperienze e realizzazioni professionali”, realizzato dal Consorzio Interuniversitario Alma Laurea e presentato alcuni giorni fa (ne hanno parlato alcuni, ma pochi) all’università di Bologna, dal direttore Marina Timoteo in presenza del ministro dell’Università e della Ricerca, Maria Cristina Messa. Nel rapporto è chiaramente scritto che la realtà descritta era nota. Era cioè noto che (dati riferiti al 2020, ma attuali) le donne costituiscono quasi il 60% dei laureati in Italia. Per la statistica provengono da una famiglia in cui almeno uno dei genitori ha la laurea il 28,3% delle laureate e il 34,3% dei laureati.

Le donne dimostrano migliori performance pre-universitarie (voto medio di diploma 82,5/100, mentre è 80,2/100 per gli uomini); inoltre, provengono più di frequente da percorsi liceali (l’80,7%, rispetto al 68,0% degli uomini). Le donne prendono parte più degli uomini alle esperienze di tirocinio curriculare (61,4% rispetto al 52,1%), ma anche alle esperienze di lavoro durante gli studi (66,0% rispetto al 64,0%) e a quelle di studio all’estero (11,6%, rispetto al 10,9% degli uomini), anche se per queste ultime le differenze con gli uomini risultano molto contenute e poco rilevanti. Le performance universitarie, in termini sia di regolarità negli studi sia di voto di laurea, sono migliori per le donne (concludono gli studi in corso il 60,2% delle donne, rispetto al 55,7% degli uomini; il voto medio di laurea è, rispettivamente, pari a 103,9 e 102,1/110).

Quanto agli esiti occupazionali sono confermate le note differenze di genere, nel breve e nel medio periodo, per le diverse possibilità di inserimento nel mercato del lavoro e di valorizzazione professionale. Infatti, il tasso di occupazione registra percentuali a vantaggio degli uomini: tra i laureati di primo livello a cinque anni dal titolo pari all’86% per le donne e al 92,4% per gli uomini; tra quelli di secondo livello rispettivamente pari a 85,2% e 91,2%. La pandemia ha poi tendenzialmente ampliato i differenziali di genere, soprattutto in termini di tasso di occupazione. Inoltre, a 5 anni dal titolo, in presenza di figli il divario di genere si amplifica ulteriormente.

Gli uomini risultano avvantaggiati anche rispetto ad alcune caratteristiche del lavoro svolto: per loro maggiore lavoro autonomo o alle dipendenze con un contratto a tempo indeterminato, per le donne, invece, più contratti non standard, ossia principalmente alle dipendenze a tempo determinato (17% per le donne e 12,2% per gli uomini tra i laureati di primo livello; 18,9% e 11,5% tra quelli di secondo livello) anche perché occupate, più degli uomini, nel settore pubblico (35,8% e 28,4% tra i laureati di primo livello; 24,4% e 16,5% tra quelli di secondo livello). Settore in cui, a tal proposito, i tempi di stabilizzazione contrattuale sono notoriamente più lunghi in molteplici ambiti, tra cui, ad esempio, quello – tipicamente femminile – dell’insegnamento. La migrazione per motivi di studio dei residenti nel sud d’Italia è più intensa per gli uomini rispetto alle donne (23,6%, +2,9 punti percentuali rispetto al 20,7% delle donne), anche se negli anni più recenti il divario di genere è andato via via attenuandosi.

In termini retributivi è confermato il vantaggio a favore degli uomini. In particolare, a cinque anni dalla laurea, gli uomini percepiscono, in media, circa il 20% in più: tra i laureati di primo livello 1.374 euro per le donne e 1.651 euro per gli uomini; tra quelli di secondo livello rispettivamente 1.438 euro e 1.713 euro. L’analisi della professione svolta a cinque anni dalla laurea mostra che sono soprattutto gli uomini a occupare professioni di alto livello, ossia di tipo imprenditoriale o dirigenziale (2,2% tra le donne e 3,9% tra gli uomini) e a elevata specializzazione, ossia per cui è richiesta almeno una laurea di secondo livello (61,7% tra le donne e 63,6% tra gli uomini); inoltre, i dati analizzati evidenziano anche alcuni meccanismi di ereditarietà della professione tra genitori e figli, in particolare maschi.

LUCIANO COSTA

Altri articoli
Attualità

Potrebbero interessarti anche

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Compila questo campo
Compila questo campo
Inserisci un indirizzo email valido.
Devi accettare i termini per procedere