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Il dovere di ricordare la strage di Capaci

«Il 23 maggio di 31 anni fa lo stragismo mafioso sferrò contro lo Stato democratico un nuovo attacco feroce e sanguinario. Con Giovanni Falcone persero la vita sua moglie Francesca Morvillo, magistrata di valore, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo, Vito Schifani, gli agenti della scorta che lo tutelavano con impegno». Lo ha detto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel discorso pronunciato in occasione del 31mo anniversario della strage di Capaci. “Una strage – ha detto -, che proseguì, poche settimane dopo, con un altro devastante attentato, in via D’Amelio a Palermo, nel quale morì Paolo Borsellino, con Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina. A questi testimoni della legalità della Repubblica, allo strazio delle loro famiglie, al dolore di chi allora perse un amico, un maestro, un punto di riferimento, sono rivolti i primi pensieri nel giorno della memoria… Quegli eventi sono iscritti per sempre nella storia della Repubblica. Ad essi si accompagna il senso di vicinanza e riconoscenza verso quanti hanno combattuto la mafia infliggendole sconfitte irrevocabili, dimostrando che liberarsi dal ricatto è possibile, promuovendo una reazione civile che ha consentito alla comunità di ritrovare fiducia… I criminali mafiosi pensavano di piegare le istituzioni, di rendere il popolo suddito di un infame potere. La Repubblica seppe reagire con rigore e giustizia. Magistrati come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino hanno demolito la presunzione mafiosa di un ordine parallelo, svelando ciò che la mafia è nella realtà: un cancro per la comunità civile, una organizzazione di criminali per nulla invincibile, priva di qualunque onore e dignità… La mafia li ha uccisi, ma è sorta una mobilitazione delle coscienze, che ha attivato un forte senso di cittadinanza. Nelle istituzioni, nelle scuole, nella società civile, la lotta alle mafie e alla criminalità è divenuta condizione di civiltà, parte irrinunciabile di un’etica condivisa. L’azione di contrasto alle mafie va continuata con impegno e sempre maggiore determinazione. Un insegnamento di Giovanni Falcone resta sempre con noi: la mafia può essere battuta ed è destinata a finire”.

Nell’anniversario della strage, simbolicamente, sono stati i ragazzi delle scuole di Campobello di Mazara, il paese del Trapanese in cui si nascondeva il superlatitante Messina Denaro, a scendere in piazza per ribadire il loro “no” alla mafia. “È importante che i nostri studenti – ha detto il sindaco di Campobello, Giuseppe Castiglione, sfilando con dirigenti e docenti scolastici, insieme alle classi del paese – ricordino il sacrificio dei servitori dello Stato morti per mano della mafia, affinché acquisiscano piena consapevolezza di quanto sia feroce il potere mafioso”. Non a caso, a Castelvetrano, la scuola è stata intitolata al piccolo Giuseppe Di Matteo, tenuto in ostaggio per 779 giorni dalla mafia e in seguito ucciso e sciolto nell’acido. “È la conferma che questa scuola è un presidio di legalità. Ma con un valore in più: questo plesso si trova nel quartiere abitato dai Messina Denaro – ha detto la preside Maria Luisa Simanella – e la scuola dice a ciascuno di loro che la storia li condanna inesorabilmente”.

Per coloro che vissero da vicino quella orrenda Pagina di storia, la strage di Capaci riveste un significato particolare per chi era in trincea, nelle settimane delle bombe e delle lacrime, e per chi vide morire amici e colleghi. Oggi quel massacro ha un’eco diversa rispetto al passato. La speranza di una terra libera e degli eroi che lottarono fino al sacrificio, oggi, si specchia nella cattura di uno dei più feroci boss di Cosa nostra. “Quando hanno messo le manette a Messina Denaro – racconta il pm del maxi-processo, Giuseppe Ayala, 78 anni – io ero in dormiveglia. Mi hanno telefonato, ho sentito la notizia e ho fatto un balzo. Ho pensato ai tremendi delitti di cui quell’uomo si era reso responsabile e sono stato colto da un moto di rabbia, per il trentennio di latitanza. È stata una bellissima operazione, su cui non possono esserci né ombre né dietrologie”. Così la memoria corre al 23 maggio del 1992. “Quel giorno – ricorda Ayala – dovevo essere in macchina con Giovanni Falcone, che mi avrebbe dato un passaggio dopo il ritorno da Roma. Per una serie di circostanze, decisi di restare dov’ero e di non tornare a Palermo. Rividi il mio fraterno amico nella camera mortuaria. Mi avvicinai, lui era lo stesso Giovanni di sempre, senza ferite visibili, perché era stato ucciso dall’emorragia interna. Gli strinsi le mani. Ed è come se le stringessi ancora. Avevo un ottimo rapporto con le scorte, compresa la sua. Antonio Montinaro era un “mattacchione”, scherzavamo insieme. Io gli dicevo: “Ma lei, in estate, deve cambiare cognome, da Montinaro a Marinaro”. Una mattina, mi citofonò: “Dottore, buongiorno, Marinaro sono…”». Giovanni Paparcuri, 67 anni, scampò all’attentato in cui il giudice Rocco Chinnici morì con altre vittime innocenti. Divenne, successivamente, il collaboratore prescelto di Falcone e Borsellino. «La cattura di Messina Denaro – dice Paparcuri, semplicemente “Papa” per i due giudici di cui era scorta – è una vittoria e una sconfitta: una vittoria per motivi che è facile intuire; una sconfitta perché è stato per troppo tempo libero e sicuramente qualcuno lo ha protetto con la sua complicità».

Poi le immagini che restano, che raccontano la violenza di Capaci, che restano un pugno perenne nello stomaco: «Ero sotto la doccia, venne a chiamarmi mia figlia Giorgia che, all’epoca, aveva quattro anni: “Papà, papà, hanno fatto del male al giudice Falcone…”. La tv era accesa, c’era l’edizione straordinaria del telegiornale. Mi precipitai all’ospedale Civico. Da una porta a vetri vidi uscire il giudice Paolo Borsellino, con la faccia pallidissima. In quel preciso istante seppi che il dottore Falcone non c’era più, prima ancora di saperlo ufficialmente. Stavamo tutti in pensiero per il dottore Borsellino che era nel mirino delle cosche. Nessuno ebbe la forza di impedire la strage di via D’Amelio. Quel pomeriggio – rammenta Paparcuri – andai a trovare Giuseppe Costanza, l’autista scampato alla strage. Anche la dottoressa Morvillo, nel frattempo, era morta». Franco Lannino, 64 anni, all’epoca fotografo di nera, era impegnato in un servizio di routine, quando un agente di polizia gli consigliò: «Franco, vai a Capaci, è successo qualcosa di gravissimo, ci sono morti». Allora, racconta Lannino “mi sono messo a correre con la macchina, ma la strada era chiusa. Dopo tante peripezie, siamo riusciti ad arrivare, in motocicletta, con Franco Nuccio, allora giovane giornalista dell’Ansa. Fu mia la prima foto che mostrò al mondo l’orrore di cui era capace la mafia. Scattavo febbrilmente e non pensavo a nulla, completamente immerso nella necessità di fare il mio lavoro al meglio. Conoscevo bene il caposcorta di Falcone, Antonio Montinaro, un ragazzo meraviglioso e spiritosissimo. Quando dovevo fotografare il giudice, nei suoi spostamenti, Antonio, con grande cortesia, si spostava per non ostruirmi la visuale”.

Ricordare per non dimenticare e per impedire che la storia abbia la possibilità di ripetersi.

A. C.

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