Il Domenicale

Pasqua, compassione, torre di babele, asini e altro…

È già un’altra volta Pasqua e ancora rileggo e sento dire che è festa della gioia. In verità, non la vedo questa festa di gioia, neppure in libera uscita. Vedo piuttosto musi lunghi, sento urla, assisto a scaramucce sempre meno popolari e sempre più violente e insensate. E non solo dove si compete correndo-calciando-pedalando o camminando, anche dove si dovrebbe ragionare-discutere-confrontarsi e misurarsi con umile ma tenace intelligenza per rendere migliore il mondo. Così, se allunghi l’orecchio, ti arriva il rumore sordo e brutale di una bomba, il sibilo di un missile, il rombo di un aereo, il colpo secco di una spada, lo scandalo delle parole vuote urlate come fossero le uniche capaci di stabilire verità. “Ma, perché preoccuparsi, tanto non qui ma altrove tutto questo sta accadendo”, dicono in troppi e con disinvoltura. Va bene, però, quell’altrove è qui, appena dietro la porta di casa. E se il rumore che provoca non è simile a quello lasciato da bombe, razzo, missile, cannonata o fucilata è lo stesso, soprattutto perché fa il medesimo effetto. Perché è un rumore assordante, un pugno nello stomaco, quello del bambino che piange in braccio alla madre disperata reduce da un viaggio sul barcone andato alla deriva; fa rumore, un tremendissimo rumore, il no che respinge i naufraghi disperati e affamati, che rimanda indietro speranze e sogni, che nega un fazzoletto di terra a chi la terra non la possiede più, che non cura, che non assicura pari dignità e pari opportunità, che impedisce libertà e democrazia, che nega il diritto all’istruzione, che non distribuisce equamente ciò che la Madre Terra dona generosamente e gratuitamente…

Così la gioia che accompagna la Pasqua la cerco in qualche chiesa e magari la sento diffusa anche se guardinga (teme d’essere vista e di dover coinvolgere chi le sta intorno), ma non la vedo per le strade e le piazze. Al suo posto scorgo il dolore e le lacrime di chi non ce la fa… Allora, ecco che qualcuno viene a parlarmi di compassione, della necessità di muoversi a compassione. “Muoversi a compassione”: ma che cosa significa? Il vocabolario della lingua italiana offre tante definizioni, anche quella che dice: compatire non è tanto sentire, quanto muoversi. Quindi, la compassione, sebbene spesso venga considerata fratello dell’amore, non è un sentimento. Basta chiedere in giro una definizione dell’amore – a caso, a questo o a quella, non importa – e la risposta immediata sarà sicuramente una: l’amore è un sentimento, che facilmente diventa sentimentalismo. “E in una società intrisa di sentimentalismo – spiegava già negli anni sessanta Flannery O’Connor, scrittrice cattolica – si guadagna in sensibilità e si perde in visione”. Voleva dire che se i suoi e nostri contemporanei sentivano meno, in altre epoche “vedevano di più, magari solo con occhi ciechi, insensibili, negati all’accettazione del mistero, vale a dire della fede…”. In assenza di questa fede, il suo posto lo ha conquistato la tenerezza, la quale, in fretta, ha imposto il suo governo. “Ma questa tenerezza così staccata dal Cielo”, si è arrotolata e si arrotola soltanto nella teoria. Così la sua logica conseguenza è spesso il terrore…

E invece c’è ben altro. E lo aveva intuito bene il genio di Dante nel suo grande poema sull’amore, nel suo amore per Beatrice, che si chiude affermando “l’amor che move il sole e l’altre stelle”, che dell’amore dice che “è questa potenza divina”. Dante usa il verbo “muovere” come dimostrazione di vitalità che si propaga. Insomma, leggo e riferisco “ci si muove a compassione perché si è mossi, com—mossi”. Quindi, si è compassionevoli perché si viene presi dalla compassione, così come dall’amore. “Sono tutti e due virtù – spiega il filosofo -, ma non nel senso che sono frutto della nostra capacità, ma al contrario sono una “forza” (virtus in latino) più grande di noi, che ci raggiunge come un dono che ci permette di fare cose ben più grandi di quelle che faremmo solo sull’onda dell’emozione o del sentimento”. Dostoevskij, nelle pagine de “L’idiota”, afferma che “la compassione è la più importante e forse l’unica legge di vita dell’umanità intera”, che “non passione ci vuole, ma compassione, capacità cioè di estrarre dall’altro la radice prima del suo dolore e di farla propria senza esitazione”. Ma è questione di visione dell’altro, di come si guarda all’altro. E certo non è mai impresa facile. Dietrich Bonhoeffer, grande teologo, scrive che “dobbiamo imparare a considerare le persone meno alla luce di ciò che fanno o dimenticano di fare, e più alla luce di ciò che soffrono”.

Magari senza neppure saperlo rende omaggio al teologo il menestrello intelligente quando canta “”. Belle parole, ancor di più se e quando vengono cantate in piazza, tutti noi abbiamo un filo che ci lega a qualcuno / ma la vita è imprevedibile e non sempre va bene. / Spesso i fili si intrecciano l’uno con l’altro / fino a che perdi la persona che ti appartiene. / Perdi la rotta ma non la destinazione / ma a volte basterebbe cambiare il punto di vista. / È come guardare un gruppo di stelle viste dall’altra parte del mondo. / Resta la stessa costellazione… / Ho il mio futuro tra le mani, ma sono pronto a salvarti. / Anche se erano occupati io ho sempre aiutato gli altri. / Siamo lontani ma ho il potere di mettere / i tuoi problemi su carta trasformandoli in origami. / E per quanto può sembrare, in fondo noi non siamo uguali davanti a mille e mille che le ripetono. Ma, saranno anche comprese? Temo e dubito che lo siano, soprattutto perché per comprenderle e diffonderle servirebbe praticare con pazienza e insistenza la cultura dell’incontro, che diventa possibile “riconoscendo l’unicità di ogni persona e il suo contributo inestimabile nella società”, che diventa patrimonio comune se, come e quando “il riconoscimento della dignità umana rende possibile la crescita comune e personale di tutti e di ogni società”.

Ecco, è Pasqua! Sento campane suonare a festa e voci che si rincorrono distribuendo auguri di gioia e felicità. Però, vedo e sento quel che accade nel mondo e stupisco come qui sia possibile vivere felici e là soltanto da disperati. Davvero non esiste, che so, un margine, una via di mezzo, un qualcosa che attenuti se non proprio annulli la distanza tra uomini e donne, che comunque sono e restano popolo della medesima Madre Terra? Sulla porta di una baita di montagna una mano certo benedetta ha scritto: “Vestiti di umiltà, entra e trova ristoro. Qui c’è posto per tutti, anche per gli asini”. Ho allora ricordato che il primo attore del viaggio di un certo Gesù verso la sua Pasqua era l’asino che lo aveva accompagnato a Gerusalemme. E grazie a Francesco Patton ho poi scoperto che senza l’asino, io e tanti altri, saremmo sicuramente più asini di quel che potrebbe sembrare.

Infatti, riassumendo il pensiero dello sconosciuto che pazientemente ha spulciato le pagine della Sacra Bibbia cercando riscontri e verità “l’asino è un animale mite e umile, ma tutt’altro che stupido… Nel libro dei Numeri l’asina del profeta Balaam si dimostra più intelligente e più docile a Dio del suo padrone; è grazie a lei che anche il profeta resta in vita”. E quando è il momento di scegliere il proprio successore, il re Davide fa salire il figlio Salomone sulla propria asina, indicando che dovrà essere un re di pace e non un re di guerra”. Poi, “anche il profeta Zaccaria vedrà il Messia re vittorioso avvicinarsi a Gerusalemme su un asino, anziché su un cavallo, perché viene a portare la pace e rendere inutile ogni strumento di guerra”. E “nel suo ingresso nella Città Santa, pochi giorni prima della propria Pasqua, Gesù si presenta nello stesso modo: non cavalca un cavallo ma un umile asinello, è il re della pace, è colui che viene a portare la pace”. Ah, quanto sarebbe desiderabile vedere i potenti del mondo seduti su un semplice ed umile asinello… semplicemente interessati a usare gli strumenti di pace, che non mancano, e che basterebbe avere la volontà di “cavalcarli”. Non so se sia pazzia o saggezza concentrata quella messa in pagina dal folle autore del “pensato del giorno” (tale Bergonzoni, se interessa), di sicuro merita attenzione e magari una minima riflessione quando dice che “a causa del bel tempo / verrà protratta / ogni manifestazione / di gioia / e rimandato / il peccato / a data da espiarsi”.

Niente di strano o tutto è strano? Questione di punti di vista, cioè di come si è o non si è tenuti in considerazione. Io, per esempio, assomiglio strano o sono inevitabilmente strano, cioè “un ottimista o un utopista beato, un sognatore di uno stato d’euforia umana in un qualche futuro…”. Poi, cosa più grave ancora, mi ritrovo cantore e portatore domenicale di idee e visioni, forse importanti o forse solo ipotizzate-sognate-arrangiate-costruite per rendere migliore i giorni. Però, lo so, solo forme di dialogo veramente inclusive possono permettere di discernere con saggezza tra ipotesi e realtà, tra possibilità e certezza di costruire torri destinate a reggere la furia del vento, del fuoco e dell’acqua, capaci di “toccare il cielo” e addirittura sfidarlo. Come provarono a farlo i costruttori della mitica Torre di Babele. E proprio il mito della “torre” di tutti e costruita sopra tutto il mondo, dimostra quanto sia difficile dare forma e sostanza a un mattone. Infatti, serve fare il fango, la paglia, ammassare, poi cuocere… Ma allora, se un mattone cadeva era una perdita grande e i costruttori si lamentavano tanto dicendo “abbiamo perso un mattone”. Ma se cadeva un operaio, nessuno diceva nulla. “Questo ci deve far pensare – ha detto tempo fa papa Francesco -. Cosa è più importante? Il mattone o l’uomo o la donna che lavora?”. Poi, dopo la Torre di Babele, la conseguente creazione di lingue diverse divenne una nuova possibilità, occasione per non ignorare o dimenticare ciò che abbiamo in comune, vale a dire che “i popoli costituiscono una sola comunità”. Solo così diventa vero quanto scrisse Albert Camus, e cioè che “nell’uomo ci sono più cose da ammirare che da disprezzare”.

Però, quanta ipocrisia attorno a questa indiscutibile normalità! Sì, davvero, quanta ipocrisia! I greci antichi, non a caso, temendola e non potendola cancellare dagli usi e costumi in voga, le permisero di restare purché fosse accompagnata dall’avvertenza di non praticarla e amarla, essendo la “signora” quintessenza del fingere, tipico atteggiamento- comportamento-vizio di una persona che volontariamente pretende di possedere credenze-opinioni-virtù-ideali-sentimenti-emozioni che in pratica non possiede, ma che essa interpreta quando tenta di ingannare altre persone con tali affermazioni.

Allora, benvenuta Pasqua dell’anno 2023! E questa Pasqua novella me l’ha raccontata e inviata come augurio un amico – don Giacomo Canobbio, mai sufficientemente letto e ascoltato – dicendomi in forma poetica che “un corpo rinchiuso / da pietra sigillata / le guardie a difesa / d’estremo rifiuto / di membra sananti / suprema impotenza / per occhi offuscati / per cuori induriti / da occulte paure / potenza inattesa / rivela / a sguardi di donne / protesi ignari a fissare / tracce di vita passata / stupiti da voce inattesa / che invita altrove a cercare / un corpo glorioso / di luce radiante / ché morte è sconfitta per sempre / per tutti / rinasce speranza. / La virtù difficile, la speranza, riprenda vigore / in cuori mai stanchi di attendere”.

Comunque la leggiate dice che è Pasqua, una Buona Pasqua.

LUCIANO COSTA

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